Gian Franco Lami (1946-2011)
Il 23 gennaio 2011 moriva improvvisamente Gian Franco Lami (
http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/2011/01/alatri-2008.html
). Desideriamo ricordarlo, a un anno esatto dalla prematura scomparsa,
ripubblicando un suo denso scritto, dove si parla, e acutamente, delle astuzie
della tradizione... Un testo in cui sono evidenziati, con grande maestria
filosofica, gli auspicabili punti di snodo fra tradizione e modernità. E in
particolare fra “scelta tradizionale” e “storicità” economica. Ma in quale
modo? Puntando sul recupero dell 'idea di "cavalleria economica", già
proposto all'inizio del Novecento da Alfred Marshall. Idea, che Lami, a
differenza dell' economista inglese, collega al concetto filosofico di obbligazione
politica. Di qui la notevole originalità del sua analisi. Buona lettura. ( C.G.)
Impresa e tradizione (*)
di Gian Franco Lami
Mi sono confrontato di recente con uno scritto di marca
“tradizionalista”, nel senso che il suo autore sosteneva le ragioni della “Tradizione”,
quella con la “T” maiuscola. La sua posizione, documentatissima, concludeva in
un inno all’indirizzo di quel nucleo essenziale di princìpi, comune a tutte le
“tradizioni”, quelle con la "t" minuscola, e capace, per ciò stesso,
di trascenderle, fino a costituirsi in una specie di cosmo organico e
armonioso, al di là della storia del mondo. I suoi riferimenti rappresentativi
erano nomi assai noti a ognuno, e andavano da Guénon a Evola, con talune
digressioni nella “letteratura fantastica”. Una ricostruzione ineccepibile, che
disponeva il lettore alla più nostalgica delle anamnesi e lo rendeva partecipe
della natura “pessimistica" di un giudizio finale sul nostro tempo, sulle
nostre qualità politiche e sulle stesse risorse della nostra umanità.
Devo dire che, da un tale punto di osservazione, la prospettiva non presenta
davvero molto di attraente. E devo dire che anche il mio innato “ottimismo”
troverebbe notevoli difficoltà a sopravvivere, se fosse costretto a fare i
conti, alla spicciolata, con questa modernità, cui tanto bene pare adattarsi
l’immagine profana e sconsacrata, dell’utile economico particolare e immediato.
Pure, sento qualcosa che mi spinge a non affrettare anche le mie conclusioni:
qualcosa che mi resiste, alla tentazione di voler tutto travolgere con una
sentenza di condanna senz’appello.
In effetti, dal momento che io stesso mi avverto come “uomo-della-tradizione”,
come uomo che, nel suo irrinunciabile ricorso storico (nella sua “circostanza”,
direbbe Ortega y Gasset), non intende perdere di vista il corso di una
coscienza (super)storica “ideale eterna”, credo che tale mia “tradizione” (con
la “t” minuscola, perché alla mia portata) abbia già in sé il seme della verità
e della salvazione.
Sono convinto, insomma, che dovremmo imparare di più dal mondo che ci circonda.
Dovremmo imparare dal suo modo di sopravvivere, nostro malgrado, dal suo modo
di resistere e di reagire ai mille insulti e alle mille prepotenze, che la
nostra presenza distratta dall’egoismo gli arreca quotidianamente. Ecco, io
penso che la verità tradizionale sia forte, anzi, fortissima: molto più forte
delle tante offese che noi possiamo farle, attraverso i risultati di un’azione
dispersa in divagazioni esistenziali. Nello stesso tempo, la mia fiducia nella
sua autorevole funzione di crescita dell’uomo, mi impedisce di vederla relegata
negli spazi di una metafisica trascendente, separata, e così garantita, dalla
corruzione delle cose terrene. Credo che la verità tradizionale cammini con noi
accanto a noi, e disegni già in questo mondo il percorso per la sua e la nostra
preservazione dalla sconfitta-che-uccide.
È ovvio che, quando parlo di questa “tradizione” non intendo davvero
confonderla con il folklore, con la variopinta molteplicità delle “sagre”
paesane e delle superstizioni para-confessionali, di cui se mai c’è stata
altrettanta abbondanza quanta se ne calcola oggi, fino al punto di arrivare a
contendere gli spazi di certo sano scetticismo, nel cuore stesso delle città
più emancipate. Ma, non intendo nemmeno confonderla con quel genere di teismo
fideista, comodamente sostenuto dalla mistica della fede e della grazia, che
tutto e tutti salverà, nel progetto terminale di una volontà-creatrice “buona”.
Mi piacerebbe invece accostarla al prodotto di una sedimentazione costante, di
una ricerca ontologica, che riscopre ogni individuo in tensione “verticale”,
sebbene all’atto di confondersi nell’orizzonte degli interessi mondano. Cosa,
che richiama alla mente il platonismo di Cicerone, di quella recta ratio che,
da una parte è in omnes diffusa, dall’altra è natura congruens: connaturata a
tutti gli uomini e alla realtà intera. La medesima recta ratio che si ritrova
in Vico, ancorché in panni barocchi, cui si deve, tra l’altro, l’ambiguità di
un messaggio recepito impunemente dall’eredità romantica, come da quella
illuministica.
Un discorso così avviato può giungere a considerazioni importanti, in ogni
campo pratico. Ma a noi spetta di portarlo a coerenza nel tema che ci siamo
proposti. Per questo, occorre capire e accettare, in tutte le sue implicazioni,
che tipo di rivoluzione ha segnato nel nostro modo di vivere in società la
“religione” del lavoro, l’idea della produttività capitalistica e di
un’economia programmata, fino a conseguire dimensioni globali. Sia ben chiaro!
Non è mia intenzione rivedere la storia del riscatto umano nell’epoca della
“secolarizzazione”, ricollegare con fili significativi l’opera nuovamente
coinvolgente – in dimensioni ancora una volta universali - di cui si fecero
epigoni gli uomini della Riforma, dopo Umanesimo e Rinascimento, per arrivare
alla “società industriale” di Saint-Simon, a Comte e al socialismo mescolato in
tutte le “filosofie della prassi” (comprese quella nazionali e liberali) del
XIX secolo e del XX secolo. Non spetta certamente a me far notare che la Chiesa Cattolica
stessa, dal 1874 (Sesto Centenario della nascita di San Tommaso), ha intrapreso
una delle più profonde rielaborazioni della sua dottrina, dando al mondo intero
segnali niente affatto secondari di come dovesse andare reimpostato il rapporto
tra le forze socio-politiche nella città-mondo.
Sta di fatto che, oggi, solo l’intellettuale meno accorto, per non dire in mala
fede, può pensare che l’uomo, o meglio, la stragrande maggioranza degli uomini
voglia rinunciare ai benefici del progresso, specie a quelli straordinari degli
ultimi decenni. Parlo di “voglia” di rinunciare, ma so benissimo che in molti
casi la rinuncia non è più nemmeno data come facoltà, né come possibilità. Del
resto non credo che sia stato eccessivo il rammarico, quando, per dirla nei
termini più comprensibili, si fu costretti ad abbandonare l’arma di bronzo per
il ferro, o il lume a olio per la corrente elettrica.
Ecco! Se si è d’accordo con questo, se si conviene sulla necessità di far conto
del patrimonio di cui disponiamo, senza pensare di poterne fare a meno, o di
potervi rinunciare, tutti, alla presunta conquista di una nuova povertà, di una
totale privazione di quel che invece caratterizza proprio il nostro essere
uomini nella nostra generazione e nella nostra era, allora si potrà anche
avviare un ragionamento ponderato sul perché e sul come della scelta
tradizionale.
Mi si obbietterà: comprendere non vuole dire accettare, sempre. Farsi una
ragione della “storicità” di taluni eventi, non vuole dire di allegarli in modo
acritico a proprio corredo personale, (quasi) ineluttabile accessorio di
un’esistenza pre-determinata. Al contrario! Significherà mettersi in condizione
di giudicare bene, per meglio dirigere l’effetto della propria azione.
Verissimo! Ed è anzi su questo che la mia dimostrazione fa affidamento, per
arrivare a proporre delle conclusioni inconsuete.
Non deve esservi scandalo nell’ammettere che il sistema cavalleresco, tanto
vivo nel ricorso di trascorsi tradizionali, a indicare la strada di un’affermazione
spirituale e “virile” tra le vanità terrene, possa sopravvivere ancora tra noi,
ma sotto forme diverse, per esempio, e tanto per restare in un parallelo
terminologico, nella istituzione dei “cavalieri del lavoro”. Non c’è nulla di
scandaloso nel vedersi consegnato all’intraprendenza di un’economia nazionale e
sopra-nazionale, non semplicemente domestica e mercantile, ma proiettata verso
dimensioni di responsabilità operative ormai planetarie, il simbolo di un
potere legittimo, quindi autorevole, su cose e persone. D’altronde, c’è forse
qualcuno che oggi può pensare in modo verosimile a una società improduttiva? A
una società talmente differente da quella attuale da poter eliminare la figura
dell’imprenditore?
Penso che tutti - intendo dire tutti noi, giunti a un’età matura - arriviamo a
una giustificazione profonda della società lavorativa e imprenditoriale, come
della sola in grado di reggere i ritmi del nostro tempo. E quando dico tutti,
parlo proprio di tutti coloro che vivono queste nostre stesse esperienze. Anche
coloro che le contestano, in chiave più o meno utopica, ma poi anelano a
un’affermazione sociale, o si aspettano che la società (“laica”) provveda alle
loro esigenze di individui “a-sociali”. In definitiva, non ha torto Eric
Voegelin quando sostiene che, nella città moderna, ordine economico e ordine
morale sono sostanzialmente corrispondenti. In tali condizioni, le sorti di
un’intera umanità si trovano affidate alle mani produttive e redditizie di
imprenditori, come anche di economisti, di pubblicitari, di sindacalisti, di
finanzieri, di agenti della borsa e della comunicazione d’impresa. E
certamente, nella somma degli “operatori” che sostengono i criteri
interpretativi di questa “società industriale”, finalizzata alla produzione di
beni e servizi per il proprio autosostentamento, c’è spazio per autentiche
aristocrazie dello spirito, in linea con la migliore tradizione che si
rammenti. O pensiamo davvero che le Gentes della “romanità” fossero qualcosa di
altro, nella loro qualifica rappresentativa e ordinante della res publica, dal
riferimento agli interessi concreti e pressanti di quei tempi? Sostituite
soltanto da strutture sociali più adeguate al mutare dei costumi e delle
mentalità sociali?
Il processo di democratizzazione, in atto dal momento in cui l’uomo ha memoria
di sé, è linfa vitale di quel moto rivoluzionario che si dimostra compendio
ineliminabile alla tradizione dei princìpi. E questi ultimi non devono essere
preservati a ogni costo, nel timore di un loro tramonto, a rischio di
trasformare in reazionarismo e conservatorismo il costrutto tradizionale. A
essi spetterà invece di far valere la propria attualità, pena una eclisse che
sembrerà toglierli alla nostra vista e dalla storia, conclusivamente.
La tradizione è astuta, come e più della ragione hegeliana. Oggi, che lo si
voglia o meno, che lo si avverta o meno, essa si serve di schemi “corporativi”
o “neo-corporativi”, per fare valere il principio basilare del suo essere: è
sempre l’autorità che comanda e fonda l’obbligazione politica, non un qualsiasi
potere privo di legittimazione. Il legittimo “sovrano” (monarca o assemblea che
sia) oggi veste i panni propri della politica economica e finanziaria, tutto
piegando a questo genere di rappresentazione. E questo complesso e articolato
suo modo di esercitare le funzioni amministrative dell’ordine sociale, non può
non avere il nostro libero e spontaneo consenso.
Gian Franco Lami
(*) Articolo tratto dalla rivista “l’Officina”, n. 9, 2002, pp. 29-31.
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