A prima vista può sembrare che Roberto Buffagni nel
ghiotto post di oggi parli soltanto della sua esperienza di uomo di teatro. In
realtà - ecco la magia sociologica ( e metapolitica) di cui gli siamo grati -
parlando in prima persona, "racconta" l’Italia e di come sia cambiata
in peggio (per primi rispondiamo al suo sondaggio...) negli ultimi venticinque
anni. Semplificando: Buffagni coglie le ragioni profonde di una sociomorfosi
tuttora in corso, discutendo magistralmente di teatro e di traduzioni
dall'americano. Insomma, utilizza gli Stati Uniti di Mamet per spiegare
l'Italia di Marchionne... Buona lettura. (C.G.)
.
Prima & dopo la cura
di Roberto Buffagni
.
In sintonia con il 150esimo dell’Unità d’Italia, mi sento in
vena di anniversari, bilanci e morali. Ho cominciato la scorsa settimana con il
bilancio di venticinque anni di frequentazione del varietà, ricavandone la
seguente morale: com’è triste, il comico italiano!
Oggi la serie prosegue con un altro bilancio venticinquennale: la mia prima
(1986) e seconda (2010) traduzione per le scene italiane di Glengarry Glen Ross
di David Mamet.
Il banale aneddoto personale servirà per lanciare il seguente sondaggio
d’opinione: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e
no, stiamo peggio o stiamo meglio?” E via con la storiella.
Venticinque anni fa tradussi e adattai per le scene italiane Glengarry Glen
Ross di David Mamet (Teatro Stabile di Genova 1986, regia L. Barbareschi, con
P. Graziosi, U.M. Morosi). In America Glengarry aveva appena vinto il Pulitzer.
Ivo Chiesa, che dirigeva lo Stabile di Genova, mi affidò la traduzione perché
due anni prima avevo per primo tradotto e adattato per il Piccolo Eliseo un
lavoro di Mamet (American Buffalo, regia F. Però, con M. Venturiello e S.
Rubini). Problema: Mamet era ritenuto, con ottime ragioni, intraducibile. Il
“Mamet speak”, come lo chiamano negli USA, è uno slang strettissimo dal ritmo
jazzistico studiato sul modello criptico della lingua di Pinter, e punteggiato
da un turpiloquio di asfissiante monotonia. I suoi personaggi sono così
idiosincraticamente e naturalisticamente americani che li identificherebbe a
prima vista per tali uno spettatore proveniente da Alpha Centauri. Con American
Buffalo m’ero cavato d’impiccio con un radicale adattamento italiano, e avevo
trasformato i due balordi di ghetto USA in due balordi italiani di periferia
metropolitana, riscuotendo un lusinghiero successo personale. Ma Glengarry non
si poteva trasportare in Italia, perché il contesto dell’azione drammatica non
aveva un vero e proprio correlativo oggettivo italiano, e dunque avrei finito
per riscrivere daccapo un dramma “liberamente tratto” dall’opera di Mamet (che
mi avrebbe giustamente mandato in galera).
Che cosa c’era di così alieno per un italiano, nel contesto dell’azione
drammatica di Glengarry? La trama è questa. Un gruppo di agenti immobiliari che
lavorano al limite della truffa vende terreni farlocchi a prezzi gonfiati. I
capi indicono un sales contest mensile: il primo in classifica vince una
Cadillac, gli ultimi due il licenziamento in tronco. USA land of opportunities,
e vinca il migliore? Mica tanto. La gara è falsata da una specie di Comma 22.
Per vendere è indispensabile avere i nominativi di serie A, quelli dei migliori
clienti potenziali, che i capi comunicano solo a chi fattura di più; a chi
fattura di meno, danno nominativi di serie Z (balordi spiantati). A fine primo
atto qualcuno sfonda la porta dell’ufficio e ruba i nominativi di serie A. Chi
è stato? Non guasto la festa a chi volesse per la prima volta leggersi il
dramma o vedersi il film che ne fu tratto (Americani, 1992, di J. Foley, con Al
Pacino, Jack Lemmon, Ed Harris, Alan Arkin, Kevin Spacey e Alec Baldwin,
quest'ultimo nella foto in alto, mentre prorompe nella ormai epocale battuta:
"Secondo premio: sei coltelli da bistecca"...).
Per l’attore italiano del 1986, e di conseguenza per lo spettatore italiano suo
contemporaneo, i personaggi di Glengarry e le loro motivazioni erano totalmente
alieni perché:
1) I suddetti personaggi non agiscono in base a motivazioni psicologiche
riconducibili alla loro storia ideologica, emotiva, familiare, etnica,
sessuale, etc. Non hanno storia personale, non hanno profondità psicologica: in
confronto, Arlecchino è un personaggio ibseniano. Come ai personaggi di Pinter,
gli è stata chirurgicamente asportata la dimensione del “perché”, sotto tutto i
rispetti tranne uno: i rapporti di forza di volta in volta vigenti nella
situazione drammatica data. Nel caso di Glengarry, questi rapporti di forza dipendono
esclusivamente da due elementi: a) i soldi b) la capacità di ingannare il
prossimo allo scopo di fare soldi: un’abilità direttamente proporzionale alla
fiducia in sé generata dai soldi fatti nell’immediato prima.
2) Il contesto descritto al punto precedente non produce una commedia magari
nera sugli imbroglioni, ma una tragedia esistenziale dov’è questione di vita e
di morte perché: a) non esiste la minima provvidenza sociale, né la minima rete
di protezione familiare o amicale, per chi perde il posto di lavoro. Se non ne
trovi subito un altro (e se non sei giovane e vincente non lo trovi) facile che
finisci a dormire per strada e rovistare nei cassonetti b) le spese correnti
assorbono tutto il reddito, e anzi è normale campare sui debiti, finché regge
il plafond delle carte di credito. Se ti salta il reddito di un mese, non hai
di che pagare la consumazione al bar. Se nella competizione per fare soldi (con
qualsiasi mezzo) non vinci, vieni dunque annichilito, liquidato, cancellato
anche dalla memoria altrui: sei morto e forse peggio che morto.
Insomma, per interpretare credibilmente un personaggio di questo dramma,
l’attore italiano di venticinque anni fa non sa da che parte prenderlo.
Proponendo i ruoli sulla base di una prima stesura della traduzione abbastanza
fedele all’originale, il regista ed io ci sentiamo chiedere più di una volta:
“Ma chi è questa gente?! Che storia ha? Perché dice questo?” (Un grande attore
caratterista rifiutò il ruolo che al cinema fu di Jack Lemmon perché nel
dialogo c’erano troppe parolacce: o gran bontà dei cavalieri antiqui…). Provo a
spiegare quel che ho spiegato qui, do fondo alle mie capacità analitiche e
retoriche, e vedo certe facce… niente da fare, il messaggio non arriva.
Una legge ferrea del teatro è la seguente: se gli attori non capiscono e
accettano a fondo il loro personaggio e le sue motivazioni, tanto meno lo
capiranno gli spettatori. Risultato: per quanto si parli e si spieghi, lo
spettacolo va a sbattere. Dunque trasformo la traduzione in parziale adattamento,
e pur senza modificare radicalmente l’azione drammatica e l’ambientazione, che
rimane americana, arrotondo e do spessore psicologico ai personaggi. Dirò senza
falsa modestia che feci un ottimo lavoro; infatti, col nuovo copione sbrigammo
in quattro e quattr’otto il casting, lo spettacolo ebbe un largo successo di
pubblico e di critica, e ci incassai anche un bel po’ di diritti d’autore.
Passano venticinque anni e succedono tante cose: a me, al teatro, all’Italia e
agli italiani.
Nel 2010 un nuovo gruppo di attori, guidati da un’altra regista, vuole
rimettere in scena Glengarry Glen Ross (Compagnia Jurij Ferrini in
collaborazione con il Teatro Stabile di Torino, regia di C. Pezzoli, con J.
Ferrini, M. Fabris). Cristina Pezzoli, una cara amica, e Jurij Ferrini che
conoscevo e stimavo solo di nome (è un ottimo e inventivo attore) leggono la
mia traduzione di venticinque anni prima, la confrontano con l’originale e si
accorgono che c’è molta farina del mio sacco. Mi chiedono il perché, e io
glielo spiego. Ne parliamo, e visto che il tempo c’è, decidiamo di provare a
riavvicinarci all’originale. Riscrivo una traduzione aderentissima
all’originale, nel lessico, nel ritmo, nella costruzione dei personaggi,
insomma in tutto (un lavoraccio). La proviamo con gli attori, tutti giovani.
Risultato: tutti entusiasti. Naturalmente si accorgono che è molto difficile
interpretarla bene, ma nessuno fa problemi, nessuno chiede “Chi è questa gente?
Che storia ha? Perché dice questo?”. Quando spiego che qui le uniche motivazioni
reperibili sono i soldi, nessuno trasecola, nessuno fa la faccia perplessa,
tutti annuiscono come quando dici che fuori piove, e in effetti sta scrosciando
un temporale. Insomma, si va in scena al Festival di Asti, e Glengarry 2 nella
nuova traduzione ottiene un buon successo di pubblico e di critica.
Dipende dal fatto che nei venticinque anni trascorsi dalla prima alla seconda
messa in scena italiana di Glengarry David Mamet è diventato famoso anche qui?
No. La fama ti garantisce disponibilità all’ascolto, non comprensione; e se un
attore non capisce sul serio, sa di non poter fare una decente figura in scena.
No. Dipende dal fatto che in questi venticinque anni, il contesto americano di
Glengarry è diventato il nostro contesto. Attori e pubblico italiani non
trovano più strano un personaggio senza storia e senza psicologia, motivato
esclusivamente da rapporti di forza basati sui soldi e basta. Non trovano più
alieno un mondo in cui puoi venire licenziato di punto in bianco, e non avendo
la protezione della famiglia, degli amici e dei risparmi, facile che finisci a
dormire sotto i cartoni. Uno sviluppo drammatico basato esclusivamente su
rapporti di denaro (per somme nient’affatto grandiose, poco più che spiccioli)
li tiene col fiato sospeso e la faccia scura perché sanno che si tratta di una
tragedia esistenziale dov’è questione di vita e di morte (venticinque anni fa,
il pubblico rideva e sorrideva spesso; oggi, quasi mai).
Ah, per finire: di diritti, ci ho preso una miseria. Come mai? Perché
venticinque anni prima il Teatro Stabile di Genova produceva lo spettacolo con
la sua compagnia (altrettanto stabile e dignitosamente pagata), e garantiva una
più che onorevole tournée italiana dello spettacolo. Venticinque anni dopo, il
Teatro Stabile di Torino nella teoria produceva lui lo spettacolo, però nei
fatti lo dava in franchising per due euro alla compagnia Jurji Ferrini, così:
a) attori, regista, scenografo, etc., tutti precarizzati, erano costretti a
lavorare per una miseria anticipando le spese vive b) non dovendo ammortizzare
le spese di allestimento e riscuotendo egualmente il finanziamento ministeriale
e regionale, lo Stabile di Torino non aveva motivo di garantire la tournée allo
spettacolo.
Tant’è vero che a un certo punto, parve che addirittura lo Stabile di Torino
non volesse ospitare il nuovo allestimento di Glengarry nel suo circuito
regionale piemontese. Gli attori erano disperati: rischiavano di lavorare
gratis e forse di doverci rimettere di tasca propria. Allora uno di loro, amico
personale di Mario Martone, il regista cinematografico che era anche direttore
artistico dello Stabile di Torino, inghiotte l’orgoglio e gli telefona. “Caro
Mario, come stai?” “Ah, ciao caro ***”. “Sai, Mario, sto facendo Glengarry con
Ferrini e la Pezzoli ,
il lavoro è appassionante, sta venendo molto bene, etc. etc.” “Ah sì? Mi fa
molto piacere, poi lo so, Ferrini è bravissimo, la Pezzoli la stimo molto,
etc. etc.” “Sì, però, vedi Mario, qui la produzione non ci vuole dare il
circuito regionale, siamo disperati, senza quelle piazze finisce che ci
rimettiamo di tasca nostra…” “Ma davvero?! Incredibile, dove andremo a finire!
E dimmi, chi lo produce lo spettacolo?”
Lo spettacolo lo produceva lui. Lui, cioè il Teatro Stabile di Torino, grande
istituzione culturale pubblica da lui diretta. Venticinque anni prima, per
risolvere qualche problemino dell’allestimento di Glengarry 1 c’era capitato di
dover telefonare a Ivo Chiesa, direttore dello Stabile di Genova e famigerato
autocrate: posso garantire che se a volte ci mandò a quel paese, mai e poi mai
dubitò di esserne il produttore (anzi, noi ci lamentavamo, poveri ingenui, che
fosse troppo padronale; mica è roba sua lo spettacolo, siamo noi artisti che,
etc., etc. … perdono, Ivo! Guarda di lassù, come siamo ridotti!)
Alzheimer? Vista l’età di Martone, escluderei. No, è che in questi venticinque
anni, i teatri stabili sono diventati macchine celibi: producono soprattutto se
stessi (e i redditi che ne derivano). Il resto, cioè il teatro, è un effetto
collaterale, una variabile dipendente, un sottoprodotto, un niente. Grande
importanza invece hanno assunto il packaging e l’immagine: ecco perché il
Teatro Stabile di Torino ha trovato conveniente nominare (e pagare immagino
bene) un direttore artistico celebre che avendo altri interessi, fa magari un
salto alla conferenza stampa d’apertura della stagione, rilascia qualche
intervista, se ne ha voglia produce uno spettacolo suo, e per il resto non
disturba i conducenti.
A questo punto, direi che possiamo rispondere alla domanda che ho proposto in
apertura: “Dopo la cura di questi venticinque anni noi italiani, teatranti e
no, stiamo peggio o stiamo meglio?”
Io inauguro il sondaggio rispondendo: “Stiamo peggio.” A voi la parola.
Roberto Buffagni
Nessun commento:
Posta un commento