Quel Giano Bifronte
del liberismo economico
Che noia il chiacchiericcio sulle liberalizzazioni e privatizzazioni, altrimenti
note come “riforme”… Ora, però basta. Va chiarito, anzi come si diceva un tempo
spiegato al popolo, che razza di contraddizione nascondano le fin troppo
rumorose fanfare liberiste. Un passo indietro: il liberismo - attenzione, non
il liberalismo politico (che è altra cosa, più complessa e interessante…),
ribadisce, si sa, il “primato del consumatore”. Tesi che risale alla teoria
della “mano invisibile” di Adam Smith. Ridotta in pillole: il consumatore trae
vantaggio dalla concorrenza fra il maggior numero di operatori economici, tutti
mossi dal proprio interesse individuale, il cui perseguimento, grazie alla mano
misteriosa del mercato, abilissima nel comporre le diverse motivazioni, finisce
per giovare a tutti. Di riflesso, più cresce il numero delle imprese sul
mercato, più il consumatore si avvantaggia, perché la concorrenza abbassa costi
e prezzi... In realtà, ci si guarda bene dal proporre leggi antimonopolistiche,
per porre piccoli ed ex grandi sullo stesso piano: il giusto “rovescio”, per
così dire, della teoria di Adam Smith. Infatti, il pensatore scozzese ne La
ricchezza delle nazioni, temendo la nascita di un “associazionismo segreto ”
tra produttori ai danni dei consumatore (includendovi però ogni genere di
corporazione, anche tra lavoratori…), mise in guardia i suoi lettori. In questo
modo, Smith aprì concretamente alla necessità di una legislazione
antimonopolistica. Un “rovescio” presto dimenticato, perché non comodo come il
“dritto”.
D’altra parte, l’introduzione di una legislazione antimonopolistica,
implicherebbe in linea teorica lo smembramento di quelle numerose grandi
imprese italiane, presenti in campo automobilistico, bancario, finanziario,
eccetera. In una parola: fantaeconomia… Anche perché, come accade in Italia,
rimane molto più comodo evocare misure di liberalizzazione solo nel campo delle
municipalizzate, delle farmacie, dei taxi, e così via… Tanto i “piccoli” non
contano nulla.
Pertanto, il liberismo sembra essere di pura facciata. E non solo perché non
vuole turbare i sonni di quelli che Ernesto Rossi, liberale vero, chiamava i
“Padroni del vapore”… Ma anche per un ragione più generale: il mercato, come
ogni altra istituzione sociale, tende naturalmente alla concentrazione del
potere.
Si tratta di un processo che non può essere affrontato, per buttarla sul
giuridichese, attraverso il controllo ex post, di tipo formale, come quello
dell’Antitrust. E allora? Si dovrebbe ricorrere al controllo ex ante,
sostanziale, di buone leggi antimonopolistiche in grado smembrare le grandi
imprese egemoni. Il che però - ecco l’altro corno del dilemma - comporta un
rischio: quello legato alla “somministrazione” di dosi, non sempre ben
quantificabili, di interventismo pubblico. Come del resto prova il diverso peso
specifico delle varie legislazioni antimonopolistiche (non molte per la
verità), a partire dallo statunitense Sherman Antitrust Act (1890).
“Somministrazioni”, da sempre sgradite ai liberisti, integrali e astratti. Ma
anche agli amanti della libertà, dal momento che resta sempre difficile trovare
un punto di equilibrio - che in genere è frutto delle circostanze storiche -
tra giustizia e libertà. Il rischio grosso, insomma, è quello di cadere dalla
padella nella brace. Detto altrimenti: di sostituire, anche in modo soft
(gradualmente, nel tempo), il monopolio statale al monopolio dei colossi
economici privati.
Ma c’è anche un’altra questione: di fatto, la riduzione delle dimensioni delle
imprese, piaccia o meno, rischia, a sua volta, di risultare nociva proprio sul
piano delle concorrenza internazionale. Dove più le imprese sono grandi, più di
sono “competitive” ( proprio all’Italia, in sede europea, spesso si rimprovera
certo “nanismo” imprenditoriale). In realtà, l’economia mondiale, si regge non
tanto sugli interessi, quanto sulla volontà di potenza economica delle grandi
imprese transnazionali, fra le quali, da ultima, va registrata la “nuova” Fiat
di Marchionne.
Di qui, da che mondo (capitalista) è mondo (capitalista), il tutt’altro che
silenzioso aggirarsi di un Giano Bifronte: da una parte il liberismo di
facciata a uso interno, dall’altra il gigantismo monopolistico, di sostanza,
per contendere i mercati esterni ai grandi colossi internazionali. Insomma,
siamo dinanzi a una contraddizione fra teoria (liberista) e pratica
(monopolista). Del resto, piaccia o meno, il “lavoro sporco” del monopolista
resta necessario, come abbiamo ricordato, per competere sul piano
internazionale. Il capitalismo liberista è perciò un cane, magari di razza, che
però si morde la coda: predica quella libertà economica che è costretto a
negare nella pratica, per svilupparsi e crescere, come impone il suo Dna.
E così veniamo al domandone finale: perché il capitalismo, storicamente, ha
sviluppato pratiche monopolistiche? La risposta è di una banalità sconcertante:
gli individui non sono tutti economicamente uguali. E per quale ragione? Perché
ancora prima, piaccia o meno, non lo sono sul piano della dotazione genetica. E
così i più forti, i più intelligenti o furbi ( i "lioni" e le
"volpi") ne approfittano. Dopo di che, una volta al comando, dal
momento che il potere socialmente tende sempre a concentrarsi nelle mani di
pochi, resta molto difficile scalzare una élite dominante. Anzi, a dirla tutta,
non sempre, le classi al potere hanno ceduto il passo con le buone maniere. Da
questo punto di vista il teorema della concorrenza perfetta, forse può essere
giustificato sul piano teorico-economico delle formule astratte, ma non su
quello sociologico dei concreti rapporti di forza. In definitiva, il
capitalismo - attenzione, come altri sistemi storici - si regge su un mix di
forza, consenso e inerzia sociale. E questo è tutto. Il popolo è servito...
Carlo Gambescia
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