Pensioni
La vera posta in gioco
.
Oggi vorremo scrivere qualcosa sulla questione pensionistica, che però
vada oltre l’attuale disputa, degna del peggiore teatrino politico. Un tema che
abbiamo più volte affrontato, ma, come si dice, repetita iuvant... Entriamo
perciò subito in argomento. Quando si discute di pensioni, si dovrebbe evitare
di restringere i tempi storici del dibattito alle cosiddette “riforme” degli
ultimi 15-20 anni. Per quale ragione? Perché si tratta di un grave errore
politico (oltre che storico), dal momento che si finisce per non considerare
quel che l’assicurazione pensionistica obbligatoria ha rappresentato nelle
politiche economiche e sociali del Novecento: un elemento di pace sociale e di
consenso alla società capitalistica. Il che non è poco.
Qualche dato. L’assicurazione pensionistica (insieme con altri programmi
sociali) venne introdotta in Europa Occidentale e nell’America del Nord (Stati
Uniti e Canada), grosso modo, nella prima metà del Novecento. Ad eccezione
della Germania e della Danimarca dove l’assicurazione pensionistica
obbligatoria risaliva, rispettivamente, al 1889 e al 1891. Ecco qualche
indispensabile dato storico sulla nascita del sistema pensionistico: Austria
(1906), Svezia (1913), Italia (1919), Francia (1910), Olanda (1913), Italia
(1919), Belgio (1924), Canada (1927), Finlandia (1937), Norvegia (1938), Stati
Uniti (1935), Svizzera (1946),
Ovviamente, per ragioni di spazio, ci dobbiamo limitare ad alcune
semplificazioni e indicazioni generali, probabilmente noiose, ma utili per
capire i veri termini della questione, come il lettore scoprirà più avanti .
Chi voglia approfondire, può leggere o consultare in argomento P. Flora e A. J.
Heidenheimer, Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, il Mulino
1986: un piccolo classico.
Torniamo a noi. La periodizzazione, sopra indicata (1889-1946), è importante
perché fa capire che le pensioni vennero introdotte in un momento di massima
pressione delle lotte operaie, e di grande diffusione, dopo la Rivoluzione russa
(1917), del cosiddetto pericolo rosso. Il che significa che il capitalismo
probabilmente accettò il diritto alla pensione in termini tattici e
strumentali. O se si preferisce obtorto collo . E non per convinzione sincera e
profonda. Del resto la storia dell’uomo non è, né sarà mai, un pacifico e
gentile minuetto…
Altro punto storico importante: a quando risale, il consolidamento del welfare
state (e dunque del diritto alla pensione)? Al trentennio post-Secondo Guerra
Mondiale. Quando il crescente conflitto con il comunismo russo (e il
conseguente pericolo rivoluzionario interno) terrorizza l’establishment
capitalistico. E quando, invece, si inizia a mettere in discussione il sistema
pensionistico? Quando il pericolo rivoluzionario, diminuisce fino a ridursi a
zero, prima negli anni Ottanta, con il riflusso delle lotte operaie in Europa (
avvenute nel decennio1968-1978), e poi con la definitiva uscita di scena dell’Unione
Sovietica (1991). Dopo di che, negli anni Novanta, si procede, in tutto il
mondo occidentale, al crescente smantellamento del welfare state, invocando
ufficialmente motivazioni legate alla spesa pubblica e al calo demografico ( ad
esempio, la legge italiana di riforma delle pensioni è del 1995). Da questo
punto di vista, le cosiddette rivoluzioni liberiste rivendicate dalla Thatcher
e da Reagan, negli anni Ottanta, sotto il profilo della revisione del sistema
pensionistico, furono ben poca cosa. La vera svolta avviene solo negli anni
Novanta, quando la sinistra si appropria del thatcherismo-reaganismo: si pensi,
ad esempio al ruolo del blairismo, e alle forti limitazioni introdotte dal
premier laburista nel sistema pensionistico britannico. E, si parva licet, si
pensi all’ attuale posizione del Partito Democratico, in particolare alla
cosiddetta "ala liberal", favorevole all’ allungamento dell’ età
necessaria per andare in pensione.
Ora, nessuno nega che in passato vi siano stati abusi (si pensi alle “pensioni
baby”in Italia), e che il problema pensionistico vada riesaminato alla luce
dell’evoluzione demografica. Tuttavia, il vero punto della questione è di
principio, ossia riguarda il diritto alla pensione. Che attualmente è sotto
tiro, nonostante le "rassicurazioni", molto interessate, fornite da
questo o quel politico. Cosa sta accadendo?
Per un verso si punta a ridimensionarlo, elevando l’età pensionistica e
abbassando il valore delle pensioni, per l’ altro vi si contrappone il diritto
al lavoro delle generazioni più giovani, cercando però di estendere la pratica
del lavoro flessibile e poco pagato, anche in termini contributivi. Di qui, il
rischio della progressiva impossibilità, per i giovani, di “costruirsi” una
pensione e un futuro ( considerati soprattutto i bassi emolumenti). E per gli
anziani di godersi la pensione da subito e in età ancora decente.
Un vicolo cieco, per tutti: per i pensionati di oggi e soprattutto per i
giovani. I quali - è così banale ripeterlo - saranno gli anziani di domani…
Chiunque sia politicamente attento al sociale dovrebbe perciò interrogarsi
sulla reale posta in gioco, ossia sulla volontà di certo capitalismo senza
scrupoli, che sembra intenzionato a fare un passo indietro verso la prima metà
dell’Ottocento. E così cancellare qualsiasi diritto alla pensione. Del resto,
per gli imprenditori, come dire, più rapaci, non si tratta di una mission
impossible. Considerata, appunto, la possibilità di delocalizzare o comunque di
reperire nel Sud del mondo mano d'opera a buon mercato, più che diposta a
trasferirsi in Occidente.
Insomma, per l’ideologia mercatista l’uomo dovrebbe lavorare tutta la vita, o
almeno fino ad “ esaurimento” fisico. E poi, magari, accontentarsi di una
pensione ai limiti della sopravvivenza.
Il che però è veramente contraddittorio. Perché se è vero che l’ iperliberismo
continua a blaterare di un “diritto dell’uomo alla felicità privata”, è
altrettanto vero, come del resto giustamente sostiene certo liberalismo
sociale, che il lavoro “creativo” è una componente necessaria del diritto alla
felicità. Di riflesso, ecco la contraddizione, come conciliare, di fatto, il
diritto alla felicità privata con l’infelicità pubblica, causata dalla
crescente diffusione del lavoro precario e dall’ attacco, ormai sistematico, al
diritto a una pensione dignitosa? Come conciliare la crescente produzione di
beni di consumo con la riduzione del potere di acquisto di stipendi, salari, e
soprattutto pensioni? Come vivere, in questo quadro così incerto, tutti
(giovani e anziani), “felici e contenti”?
E non sono domande da poco. Purtroppo.
Carlo Gambescia
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