lunedì 11 febbraio 2008

Riflessioni

Berlusconi e Veltroni, pensieri gemelli



E così in meno di una settimana il sistema politico italiano sembra passato dal pluripartitismo rissoso al bipolarismo quasi virtuoso (o forse al tripolarismo, considerando la cosa rossa...). Ieri, per giunta, Berlusconi e Veltroni hanno dichiarato di voler perseguire le stesse politiche: diminuire le tasse e alzare gli stipendi. Insomma siamo in pieno neoliberismo spicciolo o in pillole.
Ma non è di questo ( o almeno non solo) che desideriamo parlare. C’è infatti un altro aspetto che ci incuriosisce. Quello rappresentato dall’opzione di molti neoliberisti, a destra come a sinistra (come Belrlusconi e Veltroni, ad esempio), per il bipartitismo. Scelta, che a nostro avviso, è in contraddizione proprio con il neoliberismo. E che al tempo stesso indica la gravità della crisi attuale.
Ma prendiamola, come al solito, partendo da lontano: in termini di filosofia sociale. O se si preferisce di sociologia delle idee politiche.
Se il bene di tutti - come asseriscono i neoliberisti e più in generale certo liberalismo individualistico- proviene dal libero perseguimento dell’interesse individuale, non si capisce perché questo interesse non debba essere perseguito, anche in politica, da ogni singolo individuo. Che cosa vogliamo dire? A rigore (logico) potrebbero esserci tanti partiti per quanti sono i membri di una società. Il cosiddetto individualismo metodologico (l’individuo come base di qualsiasi analisi sociale, non solo dell’economia ma anche della politica) imporrebbe perciò la scelta pluripartica, o proporzionalista. Sempre che si voglia essere coerenti con principi metodologici scelti…
Infatti, se ci deve battere contro i monopoli in economia, come impone il neoliberismo, ci si deve anche scontrare coi monopoli politici. E quindi contro le grandi coalizioni capaci di esercitare un potere debordante e oppressivo nei riguardi dei piccoli partiti e sopratutto della società come insieme di gruppi sociali.
In questo senso il sistema elettorale maggioritario è assolutamente contrario, diciamo così, all’idea di un libero mercato del voto politico. Mentre il proporzionalismo riflette al meglio la libertà di mercato, riversata in politica.
Di qui però una singolare contraddizione. Quale? Tra l’idea, da un lato, della necessità di una libera competizione individuale nell’ambito del mercato in funzione antimonopolistica, e dall’altro lato l’idea (contraria) della necessità di ingessare ogni libera competizione politica, tra gli individui, per favorire la nascita di grandi monopoli partitici. In grado di assicurare “stabilità”, come dicono i neoliberisti contraddicendo se stessi.
Il che però significa - ecco il punto - che se ogni autentico neoliberista, almeno a filo di logica, non riesce ad essere "proporzionalista" coerente in economia come in politica, deve pur esservi una ragione più profonda. Cerchiamo di scoprirla.
Probabilmente risiede nel fatto che l’individualismo metodologico, alla base del “mercatismo” neoliberista, ha un valore scientificamente ridotto. Per quale motivo? Perché, se ci passa la semplificazione, non tiene conto della natura sociale e politica dell’uomo. Ovvero del fatto che l’individuo, anche in economia e in politica, tende sempre a unirsi ai suoi simili, per rafforzare il potere di interessi, che da sempre esistono allo stato diffuso e che perciò inevitabilmente sono sempre di gruppo. Insomma uniti si vince, o si tratta meglio. Ovviamente sul piano ideologico, queste scelte “unitarie”, vengono giustificate retoricamente in vario modo. Ad esempio, come già detto, si usa invocare la “stabilità”. Ma anche il progresso, il bene dell’umanità, eccetera. Mentre in realtà la finalità ultima dell’ ”unificazione” sociale e politica, riguarda il mero esercizio del potere. Che a volte viene finalizzato al male e a volte al bene. Dipende dal contesto storico e dalla persistenza di valori comunitari.
In buona sostanza le società tendono sempre a configurarsi in gruppi, di regola, in conflitto per ragioni egemoniche. Le società tendono, insomma, a strutturarsi spontaneamente in “oligopoli”.
E la politica è la scienza del conflitto, ma anche della sua regolazione. Così come la democrazia consiste nell’impedire che gli “oligopoli”, si trasformino in “duopoli” o peggio in “monopoli”.
Ecco dunque una costante: una società, entro certo limiti (perché sussiste sempre il pericolo dell’anarchia sociale: della guerra puramente distruttiva di tutti contro tutti), quanto più sarà “proporzionalista” (pluralista) in termini di gruppi sociali e politici, tanto più sarà democratica, mentre quanto più sarà “maggioritaria” (monista), tanto meno sarà democratica.
La regola, insomma, è l’instabilità insita nel pluralismo e non la stabilità di tipo monistico. Perché è l’instabilità, più o meno storicamente regolata, che favorisce l’evoluzione, tra alti e bassi, delle società. Sempre che queste ultime non siano entrate nello stadio finale del ciclo vitale. Una fase segnata da contraddizioni, soprattutto sul piano ideologico, tra teoria e pratica. Come accade oggi al pensiero neoliberista, che tra l’altro - ecco un altro elemento di debolezza - si propone, tra il giubilo generale, come “pensiero unico”, coinvolgendo tra l'altro il liberalismo nel suo insieme (anche quello "buono", realistico-politico): come chiave per uscire dalla crisi. Ma in che modo? Proponendo, a cominciare, dalla politica, la formazione di grandi monopoli (partitici), che invece, come speriamo di aver chiarito, non potranno non influire negativamente, essendone espressione, sui fattori di crisi del sistema.
E, concludendo, un’ulteriore prova di questa deriva è appunto nel fatto che i politici più in vista asseriscono la stessa cosa. Invece di offrire una pluralità di soluzioni, ne offrono una sola. Un piccolo esempio? Quello citato all'inizio. Veltroni propone le stesse soluzioni di Berlusconi: diminuire le tasse, alzare gli stipendi...

Carlo Gambescia 

Nessun commento:

Posta un commento