La guerra è guerra. E anche le democrazie liberali la
"praticano". Perché nasconderlo? Perché parlare
ipocritamente di “guerre democratiche”? Cediamo la parola all’ amico Teodoro
Klitsche de la Grange che ci spiega le ragioni di questa (apparente) contraddizione,
ricorrendo agli "strumenti" della politica pura,
ossia agli unici mezzi concettuali capaci di
squarciare il velo delle "buone intenzioni" democratiche.
Buona lettura. (C.G.)
Guerre democratiche?
Dipende
di Teodoro Klitsche de la Grange
Crediamo che compito di ogni scrittore di cose politiche,
soprattutto oggi, sia quello di contestare e demolire gli idola (tribus, fori,
specus) che il pensiero unico e i mass media da quello intruppati ci
somministrano in quantità del tutto sproporzionata alla consistenza e
verosimiglianza dei medesimi. Si pensi, ad esempio, alla diffusione delle
guerre democratiche, variamente denominate, per lo più in inglese,
rigorosamente evitando il termine “guerra”. Le quali si sono rivelate, per lo
più, poco (o punto) utili a realizzare l’obiettivo politico esternato: la
protezione dei diritti umani e/o la diffusione della democrazia. Difficili da
realizzare in comunità che non hanno la stessa storia (e radici) del mondo
occidentale. Non infrequentemente non sono riuscite nemmeno a realizzare
l’obiettivo – meno ambizioso – di far cessare i conflitti locali, o, quanto
meno, di ridurne gli aspetti e le conseguenze peggiori.
In realtà le guerre “democratiche” sono affette da alcune
malformazioni congenite, cioè presenti nel DNA di questo tipo di guerra, come
ricavabile dall’esperienza degli ultimi secoli e dai giudizi di tanti
pensatori.
Ad esempio: la pratica di far guerra per esportare regimi
politici è iniziata – nell’epoca contemporanea – con il decreto La Révellière – Lepeaux,
approvato dalla Convenzione francese nell’inverno 1792 (“guerra ai castelli,
pace alle capanne”). Il tentativo finì in una serie di guerre partigiane (di
“religione” le definì Benedetto Croce) e di regimi di occupazione militare,
politicamente satelliti della Francia.
Le buone intenzioni della Francia rivoluzionaria e poi
napoleonica avevano il limite di non essere apprezzate dai destinatari di tanto
affetto, spesso caduti in battaglia per difendere il loro modo d’esistenza. C’è
il sospetto che, se questo si è verificato tra popoli facenti parte tutti della
stessa civiltà (o cultura) cristiano-occidentale, a maggior ragione si dovrà
ripetere con popoli di tutt’altra cultura. Peraltro, come notava Gaetano Mosca,
la caratteristica fondamentale per l’affermazione di un regime politico
“moderno” (nel senso di borghese-rappresentativo) è che si fondi sulla
convinzione diffusa della separazione tra potere temporale e spirituale.
Connotato tipico del cristianesimo, ed ancor più di quello occidentale: mentre
è sconosciuto o debolmente fondato in altre culture.
In genere queste guerre hanno un’altra caratteristica,
questa in contrasto con il diritto internazionale praticato fino a circa un
secolo fa: mentre, a quei tempi, le guerre si concludevano con un trattato di
pace, oggi si concludono con un processo (ai vinti, s’intende). Conclusione
inutile, se non fosse anche tragica e irrispettosa dei diritti (dei vinti). E
non si parla tanto dei diritti “umani” ma del diritto “proprio” del nemico, che
consiste in primo luogo a poter essere lecitamente tale, cioè pari in pace e in
guerra. Se Kant e Vattel consideravano naturale che la guerra si concludesse
con un trattato di pace e che questo comportasse la
“clausola d’amnistia” (cioè la rinuncia a giudicare gli ex nemici per i reati
commessi nello stato di guerra) ciò era l’applicazione del principio del
diritto internazionale che par in parem non habet jurisdictionem; che invece ha
il superiore verso l’inferiore.
Processare il nemico è quindi
affermare che il Giudice (il vincitore) è il protettore e il vinto è il
protetto; al punto che può processare i vinti. Se a farlo poi sono i governanti
dei paesi liberati (cioè quelli insediati dal vincitore) la violazione al
diritto internazione è solo formalmente sanata, perché il mondo intero è a
conoscenza che quei governi sono la longa manus degli occupanti: quindi, sul
piano sostanziale, non cambia.
E sempre contraddicendo a quanto un
tempo praticato, è diventato normale che si faccia guerra a qualcuno non perché
ha violato i diritti o interessi dello Stato aggressore (o dei cittadini dello
stesso) ma perché ha violato quelli di altri (meglio se trattasi di “diritti
umani”). La prudenza di un teologo-giurista come Francisco Suarez – uno dei
“padri” del diritto internazionale moderno – già condannava radicalmente questa
prassi (facilissimo a convertirsi in pretesto): “ciò che taluni dicono che i re
supremi hanno il potere di reprimere gli illeciti commessi in tutto il globo, è
del tutto falso, e viola ogni competenza di poteri ordinati; tale potestà non è
stata data da Dio, e non è giustificabile razionalmente”.
Concludendo, dovremmo far tesoro,
tutti, anche in politica, di un antico adagio. Quale? Che le vie dell’inferno
sono lastricate di “buone intenzioni”: e spesso solo esternate.
Teodoro Klitsche de la Grange
Avvocato, giurista, direttore
del trimestrale di cultura politica“Behemoth" (http://www.behemoth.it/ ).
Tra i suoi libri: Lo specchio infranto (1998), Il salto di Rodi (1999), Il
Doppio Stato (2001), L'apologia della cattiveria (2003), L'inferno
dell'intellettuale (2007), Dove va lo Stato? (2009).
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