domenica 31 agosto 2025

Trump? Parla come Perón

 


Secondo la Corte d’Appello, Trump ha oltrepassato i limiti della sua autorità con le politiche tariffarie.

Questa la sua risposta.

Tutti i dazi sono ancora in vigore. Oggi una Corte d’Appello fortemente faziosa ha erroneamente affermato che i nostri dazi dovrebbero essere rimossi, ma sa che alla fine gli Stati Uniti d’America vinceranno. Se questi dazi venissero mai eliminati, sarebbe un disastro totale per il Paese. Ci renderebbe finanziariamente deboli e dobbiamo essere forti. Gli Stati Uniti non tollereranno più enormi deficit commerciali e dazi doganali e barriere commerciali non tariffarie ingiuste imposte da altri Paesi, amici o nemici, che minano i nostri produttori, agricoltori e tutti gli altri. Se lasciata in vigore, questa decisione distruggerebbe letteralmente gli Stati Uniti d’America. All’inizio di questo fine settimana del Labor Day, dovremmo tutti ricordare che i dazi sono lo strumento migliore per aiutare i nostri lavoratori e sostenere le aziende che producono ottimi prodotti ‘made in America’. Per molti anni, i nostri politici insensibili e imprudenti hanno permesso che i dazi venissero usati contro di noi. Ora, con l’aiuto della Corte Suprema degli Stati Uniti, li useremo a beneficio della nostra Nazione e renderemo l’America di nuovo ricca, forte e potente“. (*)

Adesso la parola finale spetterà alla Corte Suprema, che ha tempo per esprimersi fino al 14 ottobre, data in cui la sentenza della Corte d’Appello diverrà esecutiva.

La risposta di Trump è una perfetta sintesi del verbo protezionista. Da manuale. Trump parla come Juan Domingo Perón, il dittatore argentino (nella foto). Ora, quel che agli uomini di buona volontà risulta incomprensibile e stupido, perché fonte di autolesionismo, è il negare che il protezionismo porti la guerra invece della pace.

La storia del XX secolo prova in modo indiscutibile come, tra le altre cause, il protezionismo abbia contribuito all’esplosione di due guerre mondiali. E come invece dopo il 1945 la riapertura delle frontiere economiche abbia favorito una spettacolare ripresa dell’economia, di cui beneficiarono anche i paesi comunisti. Questi ultimi persero la cosiddetta Guerra fredda sotto gli innocui colpi, non di cannone, ma di benessere dell’Occidente: meravigliosa fonte emulativa.

Dopo il 1991 e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si perse l’occasione di ricostruire un mondo libero, almeno nella sua parte occidentale, riunificata (Russia inclusa) nello slancio che seguì la fine del “socialismo reale”.

Negli anni Novanta e nei primi Duemila il libero scambio sembrò di nuovo affermarsi: il rilancio del WTO (subentrato al GATT), l’ingresso della Cina nell’economia mondiale, i trattati regionali come il NAFTA alimentarono le speranze di una estensione globale dei mercati, pacifica e inarrestabile.

Purtroppo la crisi finanziaria del 2008 incrinò questa fiducia, rilanciando eccessive paure sociali e politiche, sfruttate dai nemici della società libera, nemici interni ed esterni: ecologisti, fondamentalisti, fascio-comunisti, Russia, Cina (con un punto interrogativo) e i cosiddetti stati canaglia. In questo modo si aprì la strada al ritorno di un protezionismo, poi cavalcato da Trump con aggressività.

Dal 1991 sono passati più di trent’anni, e ora un presidente americano, Trump, cioè un uomo che per tradizione, cultura economica, fatti storici concreti, dovrebbe difendere la libertà di commercio, parla, ripetiamo, come Perón

Un truce populista al potere negli Stati Uniti. Un incubo. La cecità di quest’uomo è qualcosa di pericoloso. Si è fatto il nome di Perón, ma Trump parla il verbo autarchico di Mussolini e Hitler.

Siamo davanti a un rovesciamento totale delle concezioni politiche ed economiche liberali. Soprattutto se si pensa che una decina di anni fa Obama propose all’Europa, senza chiudersi al resto del mondo, un patto transatlantico di libero mercato. Definitivamente affossato da Trump, al suo primo mandato.

Perciò non si può essere che pessimisti. Anche perché, visto che alcuni giorni fa si parlava della cattiva salute di Trump, esiste un mondo MAGA che sembra uscito da un libro di Lovecraft, che ruota intorno al Presidente. Sicché anche una sua defezione non favorirebbe un deciso cambio di direzione. Vance sembra addirittura più protezionista e nemico dell’Europa dello stesso Trump. Per non parlare del giro di consiglieri della Casa Bianca: nazionalisti, reazionari, mezzi fascisti (se non del tutto).

Siamo nei guai.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.dire.it/30-08-2025/1176396-corte-dappello-usa-la-maggior-parte-dei-dazi-di-trump-sono-illegali/  

sabato 30 agosto 2025

Chiocci: dal busto del Duce al microfono di Palazzo Chigi

 


Se confermata, la notizia del passaggio di Gian Marco Chiocci dalla direzione del TG1 a portavoce di Giorgia Meloni non è un semplice cambio di poltrona. È la rappresentazione plastica di un Paese che scivola nel grottesco in tinta autoritaria.

Sembra che Chiocci tenga a casa un busto di Mussolini. Non un soprammobile qualunque: il busto di un dittatore. E Giorgia Meloni non ha mai nascosto la sua ammirazione per il duce, edulcorata a colpi di “patriota” e “statista incompreso”. Bene: ora l’uomo del busto diventa la voce della premier nostalgica. Una coincidenza? Una casualità? Macché: una linea politica.

Non si tratta di un normale avvicendamento. È la prova provata che il confine fra informazione pubblica e propaganda governativa è ormai carta straccia. Il direttore del principale telegiornale nazionale che passa armi e bagagli a Palazzo Chigi significa una sola cosa: il TG1 non era un telegiornale, ma già l’ufficio stampa del governo. La “promozione” lo rende ufficiale.

Qualcuno dirà: non è la prima volta, anche in passato si sono visti movimenti simili. Vero, ma mai così sfacciati. Albino Longhi, ai tempi di Prodi, aveva assunto un incarico sull’immagine, ma non da portavoce. Qui siamo di fronte al salto definitivo dentro la bocca del leone. Dal racconto delle notizie alla scrittura dei comunicati. Dall’illusione di pluralismo alla certezza di monologo.

Non è una semplice porta girevole fra giornalismo e politica. È un matrimonio ideologico. Il direttore del telegiornale pubblico, pagato dai cittadini, che diventa megafono della Presidente del Consiglio. Dal TG1 – teoricamente garante di pluralismo – al pulpito ufficiale del potere.

Sì, in teoria potrebbe farlo chiunque. Ma non dimentichiamolo: questi non sono “chiunque”. Sono fascisti. Fascisti di oggi, magari più in giacca e cravatta, con lo smartphone al posto della camicia nera, ma fascisti. Perché fascista è chi riduce l’informazione a trombetta di regime, chi trasforma lo Stato in proprietà privata del capo, chi pretende di riscrivere la storia in chiave nostalgica.

E l’Italia applaude, o peggio ancora scrolla le spalle. Si finge che tutto sia normale, che rientri nel gioco politico. Ma non c’è nulla di normale nel vedere un direttore del TG1 arruolato direttamente come portavoce del governo. Non è solo un insulto al servizio pubblico: è il frutto avvelenato di una visione del “pubblico” nella comunicazione televisiva che di liberale non ha nulla. È l’ennesima riprova che la tv di Stato va chiusa e privatizzata, una volta per tutte.

Intanto, il busto del duce sorride compiaciuto dalla mensola di casa.

Carlo Gambescia

Lo stupro digitale come arma di distrazione di massa

 


È giusto indignarsi di fronte a Phica.eu e ai “siti sessisti”, così li chiamano, che pubblicano immagini manipolate di donne influenti come Giorgia Meloni, Elly Schlein, Chiara Ferragni e di persone comuni, trasformando la loro immagine in pornografia non consensuale. Si parla, non a torto, di stupro digitale.

Però c’è un problema: mentre la destra proclama – e giustamente – il suo “disgusto” verso questa violenza virtuale, tace o giustifica, nelle sue politiche e nella retorica pubblica, lo stupro reale che colpisce le donne migranti. Le poverine subiscono stupri e violenze reali nei lager libici, nelle rotte del Mediterraneo e, in alcuni casi, addirittura nei centri di accoglienza italiani: somale, nigeriane, in genere donne provenienti dall’area subsahariana vittime di abusi sistematici documentati (*).

 


Eppure, mentre la stampa e la politica si indignano per le immagini fake online, su questi stupri concreti da tempo è calato un silenzio imbarazzante. L’indignazione selettiva della destra diventa così evidente: lo stupro digitale scandalizza, quello reale non conta.


Non è un caso isolato: si penso al caso Almasri, un capobanda libico, sospettato di stupri, rimesso in libertà in quattro e quattr’otto dal governo Meloni. Per contro sui siti come Phica.eu, invece, si è abbattuta — giustamente, per carità — l’ira biblica della stessa destra contro lo stupro digitale. Ancora una volta, la violenza concreta diventa invisibile, quella virtuale strumentalizzata come bandiera morale.

Non è tutto: la destra coglie l’occasione dello scandalo digitale per proporre un giro di vite sulle libertà civili, dall’identità digitale obbligatoria online a sanzioni pesanti per chi diffonde contenuti non consensuali, mentre resta cieca davanti alle violenze reali subite dalle donne migranti. Lo stupro digitale diventa così pretesto per legittimare controlli e repressioni più ampi, mascherati da morale pubblica.

 


Ci si può scandalizzare per la manipolazione di un’immagine e al contempo sostenere politiche repressive verso chi fugge dalla guerra e dalla miseria? Chiudendo i porti o lasciando che la violenza libica si compia senza freno? È questa la coerenza della destra italiana, che mezzo fascista lo è per Dna storico e culturale? Chiamala, se vuoi, indignazione selettiva…


Il rischio è chiaro: lo stupro digitale diventa un’arma di distrazione di massa. Se ne parla molto, si condanna con la giusta indignazione, ma serve anche a spostare l’attenzione dalle violenze reali. Così, mentre il mondo online dibatte di foto-fake, migliaia di donne subiscono stupri veri, invisibili, silenziati, che non generano hashtag virali né indignazione istituzionale.

 


Non si tratta di minimizzare il dolore delle vittime digitali ma di collegare i puntini: c’è una gerarchia dell’indignazione che funziona a uso e consumo della politica di destra. Lo stupro digitale è uno scandalo, ma non può diventare lo specchietto per le allodole usato per giustificare la chiusura dei porti, la repressione dei migranti e il silenzio sugli stupri reali.

E non è solo colpa della destra: anche buona parte della sinistra, invece di costruire una posizione coerente e unitaria, insomma di unire i puntini, corre dietro alle prese di posizione della destra sullo stupro digitale.

Così facendo, finisce per legittimare, quasi senza accorgersene, l’indignazione selettiva e le politiche punitive della destra verso i migranti, trasformando, nell’ipotesi migliore, lo scandalo online in un terreno di scontro più che in una battaglia di principio, e in quella peggiore, lo scandalo online rischia di diventare un esercizio di indifferenza morale.

La domanda è semplice, cruda e diretta: possiamo condannare lo stupro virtuale e ignorare quello reale, quello che accade nelle mani dei carnefici libici o in centri di detenzione italiani? La risposta, o la scelta politica, dice molto della nostra morale collettiva. E della coerenza di chi, da destra o da sinistra, sceglie selettivamente cosa scandalizza e cosa no.

Carlo Gambescia

(*) Come qui: https://www.womensrefugeecommission.org/wp-content/uploads/2020/04/SVMB-Libya-Italy-ITALIAN-1.pdf .

venerdì 29 agosto 2025

La croce celtica di Acca Larentia e il silenzio di Giorgia Meloni

 


Oggi Marcello Veneziani sulla “Verità” celebra Giorgia Meloni, in particolare il suo discorso di Rimini, chiedendole però di essere più decisa. Non ricorre all’infausto “noi tireremo dritto”, però…

Intellettuale reazionario, c’è una lunga bibliografia anti-illuminista dietro di lui, Veneziani sbava come tanti neofascisti per l’“Uomo Forte”, disposti però, pur di mandare i liberali a casa ( o meglio in prigione), ad accontentarsi della “Donna Forte”. Un linguaggio non più patetico come un tempo. Oggi pericoloso per la liberal-democrazia.

Ma Veneziani non è che la punta dell’ iceberg di un immaginario di destra che sembra ormai dilagare su tutti i fronti: dai social ai media tradizionali, dalle scuole alle piazze. Coperto dai silenzi, quando occorre, di Giorgia Meloni e dei suoi colonnelli. Un silenzio che non piace all’anti-illuminismo duro e puro di Veneziani.

Si prenda il caso della ricomparsa della croce celtica in via Acca Larentia (*). Non è un dettaglio di cronaca locale o una fissazione antifascista. È un fatto politico. Anzi, simbolico-politico, il che in Italia spesso pesa di più dei fatti stessi. Non siamo di fronte a una bravata di strada, ma al riemergere – letterale – di un segno che appartiene all’immaginario neofascista e che da decenni rivendica spazio nel discorso pubblico. Ed ora, come dicevamo, sembra dilagare.

Tecnicamente il Municipio, di sinistra, ha fatto la sua parte, sollecitando l’INPS, proprietario dell’area, a rimuovere il simbolo. Ma la vicenda non si esaurisce in una pratica amministrativa. Il punto decisivo riguarda il silenzio del vertice politico: Giorgia Meloni. Quei silenzi, ripetiamo, che indispettiscono Veneziani.

Però sia chiaro: che un Presidente del Consiglio non si pronunci non significa che sia neutrale. In politica, il silenzio è un atto. Soprattutto nel caso di Giorgia Meloni.

Il silenzio equivale a un segnale, a un calcolo. In questo caso, il messaggio appare chiaro: non irritare una parte del proprio elettorato nostalgico, mantenendo una zona grigia dove i simboli del passato possono sopravvivere, se non addirittura prosperare. E poi, magari piano piano, chissà, sdoganare, anche nei fatti, il regime fascista.

Meloni conosce bene il valore dei simboli. È cresciuta politicamente proprio dentro quell’immaginario e ne ha fatto esperienza diretta. Il suo curriculum non le permette di fingere distrazione. Il silenzio, dunque, diventa scelta.

La domanda da porre è semplice: può un Presidente del Consiglio di una democrazia che si dice ancora liberale tollerare che un simbolo neofascista, riconosciuto come tale a livello internazionale, occupi lo spazio pubblico davanti a un luogo segnato dalla violenza politica degli anni Settanta? Una specie di rivendicazione ideologica nel senso, per capirsi, dell’“avevamo ragione noi”.

 


La croce celtica fu adottata dal movimento francese Jeune Nation negli anni Cinquanta del secolo scorso e poi diffusa nel neofascismo europeo degli anni Sessanta. È diventata il simbolo identitario per eccellenza: richiama la purezza barbarica e l’appartenenza atavica a un mondo ideologico arcaico (quindi antimoderno, antiliberale, anti-illuminista). Privilegia la comunità “bianca ed europea”. In breve, siamo davanti a una specie di “svastica accettabile”, meno ingombrante ma altrettanto carica di estremismo (**).

Il problema perciò non è la manutenzione delle strade. Il problema è il segnale che viene dato alla società: che la Repubblica nata dalla lezione impartita nel 1945 al nazi-fascismo può convivere con l’iconografia dei suoi nemici storici. Che la memoria può essere piegata, rimosso il conflitto simbolico.

In realtà, nessuna democrazia liberale sopporta gravissime zone d’ombra di questo tipo. In Germania o in Francia, un simbolo simile non resterebbe visibile per un giorno senza una presa di posizione pubblica.

Il caso di Acca Larentia mostra anche la fragilità della memoria pubblica italiana. Un simbolo che sembrava sbiadito ricompare con prepotenza e subito diventa terreno di contesa. Non è un episodio isolato: come dicevamo, da anni assistiamo a un ritorno di segni e linguaggi del neofascismo nello spazio urbano e digitale. Ma il contesto politico attuale rende la questione ancora più grave. Chi guida il governo proviene proprio da quella tradizione.

Pertanto Giorgia Meloni ha il dovere – politico, culturale, istituzionale – di rompere il silenzio. Un dovere, diremmo per parlare difficile, illuministico, di dire no a un simbolo di barbarie. Di rivendicare il valore della civiltà liberale, che ha radici nella rivoluzione illuminista, davanti ai barbari fascisti.

Non sarà facile. Perché l’universo culturale dal quale proviene Giorgia Meloni è lo stesso di Marcello Veneziani e di tanti altri, intellettuali o meno. Purtroppo è una specie di riflesso pavloviano. Lo si chiami pure richiamo della foresta.

Perciò rompere il silenzio non sarebbe un semplice gesto di “distinzione” tattica, utile a Bruxelles o a Washington, ma uno spezzare il circolo vizioso dei barbari istinti  bestiali dell'estrema destra.    

Equivarrebbe all’assunzione di un impegno reale verso la democrazia liberale. Perché un simbolo non è mai solo un segno: è un discorso muto, una rivendicazione implicita. E quando chi governa tace, quel discorso diventa più potente.

Il silenzio, oggi, non è prudenza. È corresponsabilità.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2025/08/28/ad-acca-larentia-torna-la-croce-celtica-rimuovetela_d3ef9d35-5bc8-4a86-9e19-d9e168e29a06.html .

(**) Per comprendere le origini della croce celtica e il suo ruolo nel neofascismo europeo, si può fare riferimento a P. Milza, Europa estrema. Il radicalismo di destra dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2005, pp. 66-70, testo ancora valido per lo studio di Jeune Nation e dei movimenti radicali di destra nel dopoguerra. Sulla croce celtica in particolare, con la necessaria cautela interpretativa, è utile la voce in L. Lanna e F. Rossi, Fascisti immaginari. Tutto quello che c’è da sapere sulla destra, Vallecchi, Firenze 2003, pp. 131-136, che fornisce un’analisi informata, sebbene in parte benevola, del simbolo e della sua diffusione.

giovedì 28 agosto 2025

Dal Duce a Giorgia: la lunga vita della M fascista

 


Il meccanismo dei simboli spiega molte cose. Passano gli anni e i simboli persistono attraverso il tempo. Figli di un immaginario, soprattutto politico, che non vuole passare. Che nel profondo, e neppure tanto, sollecita fantasie di rivincite storiche.

Si prenda la prima pagina del “Tempo” di oggi. Quella M per Meloni non è casuale, rinvia direttamente alla M, iniziale di e per Mussolini, che contaminò monumenti e parate del Ventennio.  

Ma quale "Middle Class"... La  M non è nata sulla copertina della mediocre biografia romanzata di Scurati, ma viene da lontano.

Le celebri “M di Mussolini”, in gran voga durante il Ventennio, nacquero nell’ambiente futurista di Filippo Tommaso Marinetti e furono poi sistematizzate dalla propaganda fascista, in particolare dal fratello del duce, Arnaldo Mussolini,  poi dal MinCulPop. Comparivano ovunque: nei giornali, nei libri scolastici, nei manifesti, sulle facciate degli edifici pubblici. Le M venivano spesso ripetute in serie – MMMMM – per richiamare la marcia compatta, la forza delle masse, l’energia ritmica del regime.

 


Il significato simbolico era polivalente: oltre a indicare il nome del capo, evocava Marcia, Milizia, Mediterraneo, Forza della Massa fascista e, più in generale, la potenza imperiale di Roma antica. La grafica era monumentale, ispirata all’epigrafia romana, oppure dinamica, di gusto futurista. In sostanza, una lettera trasformata in sigillo politico e culto del capo. Non mancavano però le ironie degli oppositori, che ribattezzarono le celebri “M” come semplici “ M di merda” (*). 

Pertanto si tratta di qualcosa che si incise profondamente nella mentalità collettiva. Probabilmente, come un archetipo ideologico. Dov’ è allora la novità?

Che per ottant’anni quella M la si è vista spuntare con tratti quasi infantili sulle pareti delle catacombali sezioni missine, e di tanto in tanto riaffiorare sui muri malconci delle città, opera di attivisti nostalgici. Oggi, la ritroviamo in prima pagina sul “Tempo”, quotidiano un tempo liberale. E con che scopo? Celebrare Giorgia Meloni, che a questo punto, in modo spudorato e privo di qualsiasi decenza politica, viene consacrata come l’erede di Mussolini. Non c’è male dopo ottant’anni di Repubblica…

Esageriamo? I simboli spesso sono più importanti dei fatti perché esprimono “l’indicibile”. Cioè il linguaggio criptico-estremista delle idee senza parole, come rilevava Furio Jesi più di quarant’anni fa a proposito dell’immaginario fascista e neofascista. Non si parla per argomenti ma per emozioni.

Sicché basta l’iniziale di un nome: ieri Mussolini, oggi Meloni. Una specie di linea di assoluta continuità tra il Partito Fascista e Fratelli d’Italia.

 


 Si rifletta. Tutto ciò significa che non serve dichiararsi fascisti ad alta voce. Basta una lettera dell’alfabeto: una M. Non si tratta di un vezzo grafico, ma di un codice. Un messaggio a chi sa leggere il linguaggio simbolico del fascismo. Ideologia che continua a inoculare, sottilmente ma tenacemente, il culto del capo e il sogno della rivincita.

Carlo Gambescia

 

(*) Per approfondire la storia e il significato dei simboli fascisti, tra cui le “M di Mussolini”, si veda L. Cheles, Iconografia della destra. La propaganda figurativa da Almirante a Meloni, Viella, Roma 2023; I. Buttignon, Gli spettri di Mussolini. La storia del fascismo italiano raccontata attraverso i suoi simboli, Hobby & Work, Milano 2012; nonché, più in generale, E. Gentile, La via italiana al totalitarismo, Carocci, Roma 2008.

mercoledì 27 agosto 2025

Castrazione chimica? Salvini si è già castrato da solo… Al cervello

 


Non c’è peggior modo di cominciare la giornata che quello di leggere la seguente dichiarazione di Salvini a proposito del presunto stupratore del parco romano di Tor Tre Teste.

La Lega continua a ritenere che, per pedofili e stupratori, la castrazione chimica sia la soluzione (già sperimentata in numerosi altri Stati, anche da governi di sinistra) per evitare che ricommettano la violenza più terribile che donne e bambini possano subire” (*).

Certamente. Sparare nel mucchio. Pedofili, stupratori, per iniziare. Mai mettere limiti alla provvidenza leghista…

Castrazione chimica: che grande idea! La soluzione perfetta, semplice, rapida, indolore (per Salvini, ovviamente, non per i diretti interessati). E soprattutto così rassicurante: basta una punturina e via, la società è salva.

Un pensiero geniale, degno della miglior tradizione del bar sport, o ancora meglio da birreria monacense ai tempi di Hitler, come vedremo, dove il complesso delle questioni sociali, educative, culturali, viene risolto con un colpo secco: tagliateglielo! E giù brindisi.

Attenzione: il ragazzo del Gambia, ventisei anni, sembra un regolare rifugiato politico. Se, come si legge, ha commesso un crimine, tra l’altro odioso, deve andare a processo, e se ritenuto colpevole, eccetera, eccetera. Si chiama giustizia. E qui si pensi alla violenza subita da una donna: è un trauma che resta inciso nella carne e nell’anima, non cancellabile con slogan da talk show. È la società che deve proteggere le vittime e garantire un processo giusto, non la chimica di Stato. Perché la giustizia non è vendetta, e tanto meno spettacolo elettorale.

Punire il colpevole, se tale, è doveroso. Ma confondere un rifugiato con un mostro da laboratorio è scivolare nella barbarie.

Il che significa che va assolutamente evitato l’accanimento secondo lo schema hitleriano dell’eliminazione fisica del problema.

E qui veniamo alla birreria. Non a caso: a Monaco, le prime riunioni del nascente partito nazista avvenivano proprio tra un boccale e l’altro. Lo spirito da birreria, insomma, non è innocuo: è il luogo in cui la logica brutale e semplificatrice del “problema da eliminare” si fa chiara e quasi rituale.

La logica di Salvini, in fondo, è la stessa: i problemi sociali non vanno compresi né affrontati alla radice, ma spazzati via in fretta, con una soluzione tecnica, brutale e disumanizzante.

Non importa se si tratti di ebrei, malati psichiatrici, zingari o, oggi, migranti ed emarginati sessuali: l’importante è “togliere di mezzo”, così che il bravo cittadino medio possa tornare a sorseggiare la sua birra, ascoltando le pericolose baggianate di Salvini, come nelle birrerie di Monaco, ci si deliziava con quelle di Hitler: tutti convinti, Hitler, Salvini, e amici di boccale, che la società debba essere finalmente purificata. E come detto: giù brindisi.

La vera civiltà liberale, che non è di destra né di sinistra (che certa sinistra sia favorevole alla castrazione chimica, indica una svolta nazista, non che la destra abbia ragione), non si misura dal numero di iniezioni chimiche, ma dalla capacità di integrare, educare, dare opportunità.

Hitler scelse l’eliminazione fisica; Salvini, con più eleganza farmacologica, sogna l’eliminazione chimica. Ma la logica di fondo è sempre la stessa: evitare di fare i conti con la complessità umana, riducendo tutto a una ricetta da pronto soccorso politico.

Per tornare sul punto, ci si potrebbe ingenuamente chiedere: che pensare dei ragazzi emarginati, i migranti isolati, quelli che non hanno mai avuto un contatto normale con una coetanea? Carcerati sociali… A cielo aperto…

Certo, il nostro è dettaglio da anime belle. Perché educare, integrare, offrire alternative, aprire spazi di libertà e inclusione quando  ci si può affidare alla chimica? Certo, roba da sinistra radical chic, roba "buonista",  mica da veri uomini.

La Lega, in fondo, ama i rimedi chirurgici: ieri i porti chiusi, oggi le ghiandole chiuse. Domani, chissà, magari la lobotomia per i dissidenti.

Si dirà: ironizzo. No, prendo sul serio. Perché la vera violenza, quella che non finisce mai, è contro il pensiero libero e contro i più deboli: i migranti, i ragazzi lasciati ai margini, quelli senza voce. Quelli che, per Salvini, non meritano né un’educazione sentimentale né un futuro diverso. Ma solo un’iniezione. Chimica, ovviamente.

So di dirla grossa. Ma io castrerei Salvini. Anche se, a ben vedere, sarebbe inutile: la sua stessa logica si è già incaricata di tagliargli via il cervello.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.adnkronos.com/cronaca/roma-stupro-al-parco-di-tor-tre-teste-fermato-aggressore-ero-drogato_3R4mrMSL2RsbmBwnHvpjqC .

martedì 26 agosto 2025

La lunga notte dell’ Occidente…

 


Non tutti si sono accorti del cambiamento in atto, già abbastanza avanzato, nella percezione della realtà politica a livello di senso comune.

Il cielo dell’Occidente rischia di diventare nero come la pece, come in una notte senza luna.

Lunghe notti come quelle del 1943, per richiamare il titolo del grande film di Florestano Vancini, in cui molti restavano immobili alla finestra, osservando l’oscurità richiudersi sui cadaveri dei fucilati dai fascisti.

Fuor di metafora: la maggior parte della gente comune, come l’uomo di Pascal che corre bendato verso il precipizio, divisa tra piccoli piaceri e paura di perderli, ignora o finge di ignorare ciò che sta accadendo.

Non pensiamo alla bieca guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina, o alla ventata di nazionalismo che ha trasformato la giusta reazione di Israele al terrorismo in una guerra di conquista.

Chi non è per la pace? Come si può dire sì alla guerra?

Pensiamo invece alla rivincita della destra mondiale – si badi bene, di una destra che maleodora di fascismo – che sta portando in trionfo con sé, pur parlando di pace, una visione belligena della realtà, come avrebbe detto Bouthoul.

Si pensi a Trump, dice di volere la pace nel mondo, ma utilizza le truppe contro i suoi avversari politici interni, deporta gli immigrati, rivendica il ruolo fondamentalista della religione in politica. Vuole Canada, Groenlandia, Panama. Non è sicuramente la sua una visione pacifista.

Ma il discorso può essere esteso ad altri leader della destra: il “Dio, patria e famiglia” difeso da costoro, a cominciare da Giorgia Meloni, non è altro che una maschera per contrastare il liberalismo e imporre un’unica visione reazionaria delle cose.

Alla gente comune non importa nulla di perdere la libertà di parola e di pensiero: la sola cosa che conta per il “cittadino”, che va trasformandosi in suddito, è che la sua vita quotidiana non cambi. E qui ritorniamo ai piccoli piaceri ed egoismi cui accennavamo all’inizio.

Il fascismo, a differenza della democrazia liberale, oggi di nuovo in discussione, è – semplificando al massimo – pance piene, cervelli vuoti.

Inutile qui ricordare le pelose preoccupazioni di Hitler e Mussolini perché alla gente comune – ovviamente dal sangue ariano – non mancasse nulla o quasi. Dittature e lavori pubblici: si può risalire addirittura a Pisistrato. Il tiranno vuole parlare direttamente al popolo, senza alcuna fastidiosa mediazione. Siamo davanti a una volontà di semplificazione politica: di dare risposte semplici, diremmo semplicistiche, a problemi complessi.

Il fascismo, in fondo, è questo. Risponde a una falsa domanda di sicurezza. Parla, come detto, alle pance, non ai cervelli. Il che spiega il pericoloso mutamento in atto. E guai a chi sottolinei la pericolosità del servo ben nutrito.

Noi stessi siamo rimasti vittime di questo conformismo di destra, pericoloso incipit di fascismo, che sembra ormai aver conquistato, oltre ai media tradizionali, i social.

Esclusi da Facebook per aver difeso i valori liberali (*), mentre i reazionari – tra i quali molti fascisti o aspiranti tali – sembrano godere della massima libertà. E questo, a parte alcune lodevoli ma sparute eccezioni, nel silenzio generale di gente che non vuole essere disturbata, distolta dal godimento di briciole che cadono dalla tavola dei fascisti, che a ogni passo si sentono più forti.

Noi siamo piccola cosa. Ma proprio qui è il problema. Non ci si accontenta più di aver piegato i grandi. Ora, in questa nera notte dell’Occidente, si vuole schiacciare la testa anche ai piccoli.

Carlo Gambescia

 

(*) Qui: https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2025/08/bloccato-su-facebook-intervista-di.html .

lunedì 25 agosto 2025

Tajani, vieni avanti, cretino!

 


Ieri Antonio Tajani al Meeting di Rimini ha tirato fuori dal cilindro la sua ultima trovata: l’Italia non invierà truppe in Ucraina, ma potrà contribuire con lo sminamento. Ora, va bene tutto: la prudenza diplomatica, la necessità di non infiammare ulteriormente un conflitto già devastante, la ricerca di un ruolo specifico per l’Italia. Ma c’è un limite a tutto. E il limite è il ridicolo.

Perché mentre i russi bombardano, mentre prendono in giro Trump e la sua presunta mediazione da Gomorra Soap, mentre la guerra di aggressione continua senza tregua, Tajani si presenta come il grande stratega dell’umanitario tecnologico.Una specie di Marinetti del metal detector…

Il vero problema è che sembra più una battuta da avanspettacolo che una dichiarazione di politica estera. Non a caso viene subito in mente la celebre gag dei Fratelli De Rege: “Vieni avanti, cretino!”. In seguito valorizzata da Carlo Campanini e Walter Chiari… (*)

Che poi, diciamolo: Giorgia Meloni, che di fatto è il vero ministro degli Esteri, lo lascia parlare. Fa la furba, come al solito. Tace, osserva, incassa. Tanto Tajani non le toglie nulla: al massimo, la copre. Anzi, il suo eterno moderatismo da democristiano fuori tempo massimo le torna utile come foglia di fico. Lei è la “dura” a Bruxelles, lui è il “buono” a Rimini. Divisione dei ruoli: la politica come commedia.

Il problema è che di fronte a un’aggressione militare spietata, a città ridotte in macerie, a una popolazione che lotta per sopravvivere, proporre lo sminamento come bandiera dell’Italia suona, purtroppo, come un gesto comico. Serio nelle intenzioni, ridicolo negli effetti.

E allora sì, non resta che dirlo apertamente: Tajani, viene avanti, cretino! Si badi: politicamente cretino. L’uomo Tajani poi sarà pure intelligentissimo. Ma questa è un’altra storia…

Carlo Gambescia

(*) Per chi non  ricordasse la gag: https://www.youtube.com/watch?v=XsUF5rG1D-g .

domenica 24 agosto 2025

Spread: miracolo italiano o inciampo tedesco?

 


Spread ai minimi? Non si festeggi troppo: non è un miracolo italiano, ma il segnale di mercati europei in bilico. Oggi, come spesso accade, qualche giornale di destra prova a trasformare un dato neutro in una vittoria nazionale.

Nel contesto della rassegna stampa di oggi, colpisce lo strombazzamento de “L’Identità”, quotidiano di destra, che apre a tutta pagina sullo spread ai minimi. In realtà siamo davanti a una redazione che ama giocare ad essere più realista del re (anzi della regina Giorgia I). Un giornale con scarso seguito, che sceglie di dare rilevanza a una cosa che forse politicamente conviene, ma che alla prova dei fatti risulta del tutto fuorviante.

Lo spread BTP-Bund è oggi intorno a 83 punti base (dato aggiornato al 22 agosto 2025). Il minimo dell’anno, pari a 71 punti base, è stato registrato il 15 agosto 2025. In parole povere, è la differenza tra quanto lo Stato italiano deve pagare di interessi a chi compra i suoi titoli e quanto paga lo Stato tedesco: un vero termometro della fiducia dei mercati. Numeri nitidi: lindo, ordinato, non soggetto a proclami.

E qui l'amara  verità: lo spread cala perché i Bund tedeschi rendono pochissimo, specchio di un’economia tedesca appesa a un filo, ma che comunque gode ancora ancora dell'antica buona nomea, Quando gli investitori cercano sicurezza, comprano Bund: il prezzo sale, il rendimento scende. Non un  "miracolo  italiano",  ma il classico rifugio nel debito tedesco.  Si tratta semplicemente  di un livellamento verso il basso: noi fermi, la Germania rallenta, e il differenziale si restringe. Un po’ come sorridere perché il vicino inciampa. Roba da poveracci…

Meloni, da autentica bruja comunicativa, dopo la gaffe del maggio scorso (sui titoli italiani più "sicuri" dei tedeschi), non si è lasciata andare troppo: mezza celebrazione, ma senza euforia. Meglio non soffiare troppo sul “successo” di un fenomeno che, a ben guardare, non è tale.

Pertanto “L’Identità”, per dirla molto alla buona, la fa fuori dal vaso…



Stranamente, nemmeno la sinistra insiste con questa cosa: nessuna analisi approfondita, nessuna campagna informativa per dire chiaramente: “Cari cittadini, questo non è merito italiano, è debolezza altrui”. Complicità inconsapevole? Pigrizia? O timore di mettere a nudo che, se la locomotiva europea tossisce, tutte le carrozze soffrono. Meglio lasciar correre, senza fare rumore.

Risultato: lo spread diventa una zona franca, un tema scomodo che entrambe le parti evitano. Un inghippo dirigista condiviso da destra e sinistra. Non si attacca, non si smonta, non si esalta — semplice, non si tocca. Un tabù bipartisan: tutti zitti, per non scomporre  il fragile equilibrio.

A costo di essere pedanti vale la pena ricordare che lo spread BTP-Bund diventa strumento politico centrale nel 2011, durante la crisi dei debiti sovrani. Il lettore prenda nota: strumento politico. In quell’anno, lo spread italiano vola fino a superare i 550 punti base nell’autunno 2011, con i rendimenti dei BTP decennali che toccano oltre il 7 %, segnando l’allarme massimo per i mercati e la Commissione Europea. Il governo Berlusconi cade e subentra Monti, con la BCE guidata da Trichet e poi Draghi che esercitano pressioni dirette sui governi affinché adottino rigore fiscale e riforme strutturali.

Da allora, lo spread non è più solo un dato tecnico, ma un vero feticcio dirigista, usato come metro di disciplina dei bilanci e delle politiche nazionali. Eppure resta un fenomeno del tutto indipendente dalle intenzioni dei governi: un indicatore dei mercati che comparano, arbitrano, si muovono.

Inutile illudersi che Bruxelles o Roma possano imbrigliare questa dinamica con vincoli o tetti numerici. Alla fine, resta valida una sola lezione: laissez-faire, laissez-passer. Lo spread è un indicatore dei mercati, non un premio per l’abilità dei governi.

La morale è chiara: i mercati non si piegano ai governi, li giudicano. Lo spread non è un applauso politico ma un prezzo, e il prezzo non mente. Chi spaccia per vittoria nazionale un inciampo altrui inganna se stesso e i cittadini. La sola difesa, in un’Europa che frana, resta quella antica: meno dirigismo, più libertà. Tutto il resto è rumore di fondo, chiacchiera da cortile.

Carlo Gambescia

sabato 23 agosto 2025

Draghi vede solo i conti, ma l’Europa rischia la Bastiglia

 


Ieri, al Meeting di Rimini, Mario Draghi ha pronunciato parole severe sull’Europa. 

Ha detto, in sostanza, che il 2025 sarà ricordato come l’anno in cui è evaporata l’illusione europea di contare. Che l’Unione, pur essendo il maggiore finanziatore della guerra in Ucraina, è rimasta spettatrice. Che lo scetticismo cresce, non sui valori, ma sulla capacità di difenderli. E che la via d’uscita sarebbe una maggiore coesione economica e fiscale. Prima l’economia, poi la politica.

Tutto giusto, verrebbe da dire. Eppure qualcosa stona.

Il parallelo corre facile con i quattro ministri delle finanze di Luigi XVI. “Controllori Generali” come si diceva allora: Turgot, Necker, Calonne, Brienne: uomini capaci, intelligenti, seri. Eppure destinati al fallimento. Per quale ragione? Perché credevano che il problema fosse solo economico. Tentavano riforme fiscali, bilanci trasparenti, imposte universali. Ma non compresero la vera natura della crisi: politica, cioè la lotta di potere tra Monarchia, Nobiltà, Clero e un Terzo Stato borghese in ebollizione: che voleva contare politicamente. Necker, tornato al potere, nell’agosto del 1788, per la seconda volta, gestì malinconicamente la fine, tra veti reali ed egoismi di ceto. Si dimise l’11 luglio del 1789, da nemico di dio e dei nemici di dio. Tre giorni prima della presa alla Bastiglia.

Risultato: la Rivoluzione francese. E le acque della storia si richiusero su Necker.

Draghi rischia la stessa cecità. Non coglie – o non vuole cogliere – che la crisi europea non è solo questione di bilanci, di debiti, di unione fiscale. È questione politica. Di potere, di sovranità, di identità europea. In un continente dove le destre nazionaliste, sorde e cieche come la nobiltà, il clero, pensano solo a se stesse. Però non tentennano come Luigi XVI. Tutt’altro, le destre avanzano tracotanti, favorendo il gioco di Trump, Russia e Cina che hanno tutto l’interesse a vedere l’Europa frantumata.

Probabilmente forziamo l’analisi. Però resta il fatto che il nodo è politico. E che Draghi purtroppo non lo coglie.

Si rifletta: il rischio è chiaro: come i ministri di Luigi XVI, Draghi spinge sull’economia pensando che la politica seguirà da sé. Ma la metapolitica ci dice che è vero il contrario: la politica decide sulla cornice, l’economia viene dopo.

Si dirà: ma come, Gambescia, che è liberale, difensore del laissez-faire, oggi viene a invocare la politica? Non è una contraddizione? No. Il liberalismo non è culto della partita doppia, ma cultura dei limiti e delle regole. La politica serve a garantire il quadro entro cui l’economia può funzionare: istituzioni, diritti, libertà. Senza quel quadro, l’economia diventa giungla, preda dei più forti, o terreno di conquista per potenze esterne. Mai confondere la fisiologia dello stato (stato di diritto) con la sua patologia (lo stato interventista).

Il liberale autentico sa che l’economia prospera se c’è uno stato di diritto, se ci sono istituzioni condivise, se c’è una cornice politica solida. Non chiede più stato per distribuire prebende, ma più politica per difendere lo spazio della libertà.

Inoltre, cosa non secondaria, mai confondere la politica (ciò che non muta, come insegna la metapolitica) con il transitorio (le forme storiche che assume la politica, come ai nostri giorni con lo stato interventista).

Draghi, al contrario, sembra invertire addirittura il ragionamento. Cioè crede che la politica sia una derivata dell’economia. Neppure si pone il problema metapolitico del rapporto tra contenuto (immutabile) e forme (variabili) della politica. La declassa, punto. È un economista più liberale di noi? Direi il contrario: è un tecnico che scambia il liberalismo con il ragionierismo.

Quale potrebbe essere, allora, la “Rivoluzione francese” di oggi? La fine dell’Unione europea. La sua disgregazione in staterelli nazionali, ciascuno col proprio dazio, la propria moneta, i propri muri, le proprie Meloni che sbraitano suo dio, patria e famiglia. Una disfatta pilotata dall’interno da torvi leader nazionalisti, e dall’esterno da chi sogna un’Europa irrilevante.

Draghi è un eccellente economista, un amministratore serio, una brava persona, per dirla alla buona. Ma, come i suoi antenati francesi, non coglie appieno la dimensione politica della crisi: la vede come derivata dell’economia, non come cornice necessaria. Questo talvolta lo rende impopolare, come Necker. E senza visione politica, l’Europa non si governa: si subisce.

Carlo Gambescia

venerdì 22 agosto 2025

Il Campo dei Santi: il liberalismo sconfitto dal macabro

 


Libertà sotto assedio

Il Campo dei Santi di Jean Raspail. Un articolo critico contro questo libro, e in particolare verso l’operazione editoriale che lo ha trasformato in allegato a “La Verità” e “ Panorama”, operazione gestita da Belpietro, mente giornalistica della versione italiana della teoria della sostituzione, ha causato, per il momento, il blocco della nostra pagina Facebook.

Così va la libertà di pensiero oggi in Italia. Molto triste, non solo per noi, ma per i censori che dimostrano ogni giorno di temere più le idee che la realtà, incapaci di confrontarsi con critiche argomentate e riducendo il dibattito pubblico a una sterile guerra di silenzi. Se questo non è fascismo digitale, allora che cos’è?

Invece di crescere nella conoscenza e nella responsabilità, ci rinchiudono in bolle di conformismo, dove l’unico diritto tutelato sembra essere quello di proteggere dogmi e interessi editoriali, a scapito della libertà di pensiero e della verità.

E quel che è triste, è che gli stessi lettori, non tutti ovviamente, si voltano dall’altra parte. Forse temono il contagio e di essere a loro volta schedati o bloccati per aver letto e condiviso un nostro articolo.

Origini di un mito

Prima di recensire il libro di Raspail, letto alcuni anni fa nell’edizione italiana, proposta dalle edizioni di Ar di Franco Freda (1), desideriamo chiarire origini e significato della teoria della sostituzione.

La cosiddetta “teoria della sostituzione” nasce come formula nel 2011 con lo scrittore francese Renaud Camus (Le Grand Remplacement). L’idea però affonda negli anni Sessanta-Settanta, tra nostalgici dell’impero coloniale e scrittori, per l’appunto, come Jean Raspail (Le Camp des Saints, 1973). A monte ancora, vi sono le paure demografiche e razziste di fine Ottocento e del primo Novecento (Gobineau, Chamberlain, miti sul “suicidio dell’Occidente” ). Spesso ci si richiama al fantomatico“Piano Kalergi” (anni  Venti-Trenta ), un mito complottista senza fondamento storico. 

Inciso: alcuni vi accostano anche Sottomissione (2015) di Houellebecq. Libro che fece rumore. Però, a dire il vero,  affiancare uno scrittore così raffinato,  che gioca soprattutto sui paradossi postmodernisti,  a questa ciurmaglia  ci sembra fuorviante. 

Anche perchè siamo decisamente alle radici della cultura pre-fascista e pre-nazista che con il "post moderno" ha poco a che vedere.  Detto altrimenti il termine è recente, ma l’immaginario che lo alimenta ha radici molto più antiche. La teoria afferma che le popolazioni europee bianche e cristiane stiano venendo progressivamente sostituite da immigrati, soprattutto musulmani. E che dietro vi sia una mente: quella del capitalismo internazionale che vuole mano d’opera a basso  costo. Neppure  oggi  si fosse agli inizi della rivoluzione industriale e non nel pieno di  un' economia informatizzata e globale  che si nutre giustamente   di specialismi e specialisti ben pagati.

La “sostituzione” italiana

Renaud Camus, da autore non del tutto banale, si è trasformato negli anni Duemila in ideologo dell’estrema destra identitaria. Le sue tesi, oggi ampiamente criticate come complottiste e razziste, hanno avuto eco nei movimenti fascisti, populisti e suprematisti.

Per quel che riguarda l’Italia alcuni esponenti della destra italiana hanno fatto riferimento, direttamente o indirettamente, alla cosiddetta “teoria della sostituzione etnica”: tra questi Giorgia Meloni, che già nel 2016 parlava di “prove generali di sostituzione etnica” e che insieme ad Alessandro Meluzzi e Valentina Mercurio ha scritto il libro Mafia nigeriana. Origini, rituali, crimini ( Oligo 2019), esplicitando la tesi di un presunto progetto per cambiare l’etnia europea; lo stesso Meluzzi contribuisce alla diffusione di questa narrativa; Francesco Lollobrigida nel 2023 ha citato apertamente la sostituzione etnica; Carlo Ciccioli nel 2021 l’ha collegata a demografia e aborto; Andrea Delmastro nel 2021 l’ha evocata come scenario negativo da evitare; Elena Donazzan nel 2024 ha associato matrimoni misti e immigrazione a rischi culturali; infine Matteo Salvini, potente alleato di Giorgia Meloni, già nel 2015 parlava di un’“operazione di sostituzione etnica coordinata dall’Europa”, inserendo il tema nella retorica politica della Lega (2).

La flottiglia del Gange

Ma veniamo finalmente al libro di Raspail. Secondo la trama del romanzo, la cosiddetta flottiglia del Gange – oltre un milione di indiani disperati – non si limita a fuggire dalla miseria: pretende di prendersi la Francia, e con essa l’Europa intera. Qui sta il sottinteso polemico: gli ex colonizzati che si vendicano sui colonizzatori, i “dannati della terra” che rovesciano il tavolo della storia. Una rivalsa presentata non come processo politico o sociale, ma come invasione biblica.

La paura confezionata

Infatti il richiamo al "Campo dei Santi”, tratto dall’Apocalisse, non è certo casuale. Raspail prende in prestito l’immaginario del Giudizio Universale, dove le orde del Male assediano i giusti, per trasferirlo di peso alla cronaca contemporanea. Così, i migranti laceri e affamati diventano, senza troppi giri di parole, i seguaci di Satana pronti a spazzare via l’Occidente. Un’operazione retorica grossolana ma efficace: basta citare la Bibbia – e per di più un passo apocalittico – per incorniciare la narrazione dentro lo schema del “noi buoni/loro cattivi”. In tal modo, il lettore viene messo subito sulla difensiva, incitato a vedere nell’arrivo degli stranieri non un fenomeno storico-sociale, ma la fine dei tempi. Una drammatizzazione teologica, insomma, che serve a dare autorità a un discorso politico mascherato da profezia.

Il grottesco come strumento politico

Il romanzo gioca a costruire due scenari, ma lo fa con un’aria da catastrofe annunciata che lascia più perplessi che impressionati.

Da una parte c’è la descrizione della flottiglia disperata: barconi fatiscenti, sofferenza umana, esodi da incubo. Sì, il quadro è tragico, ma la narrazione sembra più un catalogo di orrori per shock emotivo che un vero approfondimento.

Va detto per inciso, che la prosa truculenta del libro, ricorda alcune pagine altrettanto cruente, contro gli ebrei del Mein Kampf hitleriano. Libri macabri, orripilanti, repulsivi, raccapriccianti. Eppure...

Dall’altra , i politici francesi: ritratti come incapaci, vacillanti, pronti a soccombere davanti a un’invasione che il libro vuole “apocalittica”. Il problema è che questa rappresentazione è caricaturale, riduce la realtà a una sceneggiatura da allarme.

Intorno a tutto ciò si muovono artisti, giornalisti, preti, professori, militari… figure che dovrebbero aggiungere spessore, ma diventano pedine schematiche: o favorevoli, o contrari, senza sfumature.

E poi i leader simbolici della flotta: un guru chiamato “Coprofago” (mangiatore di sterco) e un oracolo deformato, che ricorda i mostri gelatinosi e latomici di Lovecraft ( per inciso, altro punto di riferimento per una destra demonizzante; il razzismo dello scrittore americano, è piuttosto noto).

Insomma l’assurdo diventa grottesco, e la storia perde credibilità. Lo sbarco e la “marcia verso nord” vengono raccontati come se i migranti fossero una marea inarrestabile che cancella culture e identità: un’apocalisse etnica confezionata per spaventare.

Per dirla tutta, accettare la normalità dell’Ubi bene, ibi patria? Non sia mai. Si deve per forza piantare la bandierina di una civiltà occidentale bianca, intollerante, nemica dell’Illuminismo e del liberalismo. La stessa che oggi è sulle labbra dei Trump, delle Meloni e di tutta la compagnia cantante di una destra che, cupamente, sconfina nel fascismo.

Idee-forza e slogan

Il romanzo non è tanto un’analisi sociale o politica, quanto un esercizio di panico morale. Fa leva sulla paura dell’altro, esagera, moralizza, scolpisce, demonizzandolo il nemico con la pelle dal colore “diverso”.

In realtà come si legge in una acuta analisi che “smonta”, economicamente parlando, la teoria della sostituzione,

“non esiste un futuro predeterminato: lo scontro delle civiltà è possibile, ma lo è anche l’incontro di civiltà . Molto dipende dalla politica: dal sapere mettere l’accento su ciò che unisce rispetto a ciò che divide, sulla tolleranza dell’altro, sulle buone prassi, sulle azioni concrete nella scuola e nel lavoro. Purtroppo, quasi ogni giorno vediamo come sia più facile iniziare un incendio che spegnerlo” ( 3).

L’operazione editoriale

Si dirà che forse esageriamo nelle critiche e nelle previsioni. Dal momento che anche se Il Campo dei Santi venduto come allegato, non tutti compreranno o leggeranno il libro. Chi lo acquisterà, magari lo terrà solo in bella mostra a casa, accanto a quelli di Vannacci, altro personaggio che non ha mai disdegnato di mostrare il suoi interesse per la teoria della sostituzione (4).

Può darsi, tuttavia, si trasformeranno in slogan, efficacissimi, frasi del libro colte qui e là: le famose idee-forza di Sorel, altro pericoloso e disordinato pensatore pre-fascista.

La cosa più grave è l’operazione editoriale. I topi sono usciti un’altra volta dalla fogne. E non hanno timore di mostrarsi alla luce del sole delle edicole e delle librerie.

È vero che Il Campo dei Santi è stato tradotto in molte lingue: insomma, una specie di bestseller. Però, ecco il punto, il libro circolava attraverso canali alternativi dell’estrema destra, un po’ come, per fare un esempio terra terra, circolava una volta la letteratura pornografica, prima che aprissero i Sexy Shop e che, in generale, nessuno si scandalizzasse più.

Ora non è più così. Non si grida allo scandalo. E non si ravvisa più un pericolo nella diffusione di idee razziste.

Il liberalismo sconfitto dal macabro

Raspail, ora lo si trova in edicola. Ha vinto un inutile viaggiatore, che nulla ha imparato dal caleidoscopio culturale passatogli sotto gli occhi, uno scrittore ripetitivo e mediocre, un pericoloso romantico politico come tutti i fascisti (5).

Non ricordiamo esattamente dove, ma André Glucksmann osservò che il comunismo sarebbe stato sconfitto quando Arcipelago Gulag si sarebbe trovato perfino dal giornalaio. E così è stato.

La stessa osservazione vale oggi per il liberalismo, ma in maniera rovesciata: sconfitto non da un inno alla libertà come quello di Solženicyn, ma da Il Campo dei Santi di Raspail, un macabro richiamo all’odio.

Carlo Gambescia

(1) Qui il catalogo: https://www.edizionidiar.it/. Qui la pagina dedicata  al romanzo di Raspail: https://www.edizionidiar.it/?s=raspail .

(2) Qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/09/16/i-mafiosi-nigeriani-selvaggi-e-cannibali-tutte-le-perle-del-libro-di-giorgia-meloni/7289823/ (Meloni); https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lollobrigida-inciampa-sulla-sostituzione-etnica (Lollobrigida); https://www.ilsussidiario.net/news/se-non-si-fanno-figli-altre-etnie-ci-sostituiranno-carlo-ciccioli-fdi-su-aborto/2123041/ (Ciccioli); https://www.fratelli-italia.it/def-delmastro-per-governo-soluzione-problemi-e-sostituzione-etnica/ (Delmastro); https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2024/06/05/assessore-fdi-matrimoni-misti-favoriscono-terroristi_978965fa-d71d-4c44-8e48-313e349849f8.html (Donezzan); https://pagellapolitica.it/articoli/meloni-salvini-sostituzione-etnica (Meloni e Salvini).

(3) Qui: https://lavoce.info/archives/58238/errori-e-orrori-della-teoria-della-grande-sostituzione/ .

(4) Qui: https://lespresso.it/c/politica/2025/5/17/remigration-summit-gallarate-lega-vannacci-milano-manifestazione-schlein-scontri/54373 .

(5) Qui una delle sue ultime interviste: https://www.barbadillo.it/91393-addio-a-jean-raspail-patriota-e-gigante-della-letteratura-europea/ .

giovedì 21 agosto 2025

Netanyahu, l’affossatore della Shoah

 


Tra cento anni non si potrebbe più parlare della Shoah, anche per colpa di Netanyahu, e non a causa degli israeliani, e tanto meno degli ebrei.

Detta così la frase può sembrare apodittica, cioè di argomento evidente, inconfutabile. Quindi occorre una spiegazione.

Cosa vogliamo dire? Che una politica di estrema destra, una miscela di forza militare e di insediamenti, promuove quello che può essere definito il nuovo antisemitismo, che si fonda sul concetto dell’ebreo, quindi non solo Israele, come nemico della pace in Medio Oriente, e di rimbalzo in tutto il mondo. Torna il retrivo  schema paleocristiano dell’ebreo uccisore, questa volta, del moderno Cristo: la pace universale.

Più Netanyahu, da uomo di estrema destra, che traduce lo spirito di nazione (sano all’inizio di Israele) in nazionalismo, più il mondo vede nell’ebreo chi vuole crocifiggere la pace. 

Una evocazione che, stando allo studio attento della pubblica opinione, va oltre il normale, o se si preferisce classico, estremismo politico della destra e della sinistra antisemita. 

Dicevamo della Shoah. Se ne parla sempre meno. E soprattutto, viene usata al contrario, contro gli ebrei. Come frutto di un vittimismo che serve a coprire l’aggressione – così ormai viene presentata – contro i palestinesi (*).

Che tutto questo sia falso è inconfutabile, come è inconfutabile lo spirito aggressivo dell’attuale governo israeliano. Che va oltre la giusta risposta all’attacco terroristico del 7 ottobre. Una politica, come ha provato una recente manifestazione, che non è assolutamente condivisa da tutti gli israeliani. Non esiste l’Ebreo, come “blocco” unico. Il sionismo unito al liberalismo produce la libera dialettica tra destra e sinistra.

Netanyahu, appoggiato all’estero da altri leader ultranazionalisti, da Trump a Giorgia Meloni, e via dicendo, sta distruggendo, giorno dopo giorno, oltre a questa fisiologica dialettica, il valore metastorico della Shoah. Ecco perché dicevamo, che tra cento anni si rischia il suo affossamento.

Si dirà, che stiamo vaneggiando. Il governo Netanyahu è dalla parte della ragione, reagisce a un’aggressione, eccetera, eccetera.

Ripetiamo. Nessuno nega che la reazione sia stata giusta. Ciò che va criticato è la deriva nazionalista che porta all’identificazione – ripetiamo – tra ebraismo e complotto – questa volta – contro la pace mondiale.

Il rischio è quello che si diffonda e prorompa nel cervelli l’idea della Shoah al contrario, cioè che in fondo Hitler aveva ragione.

Nel 1978, fu prodotta e diffusa una miniserie televisiva, “Olocausto”. Termine allora preferito a quello di Shoah che invece esclude l’idea di sacrificio inevitabile. Nonostante ciò fu un enorme successo e un pugno nello stomaco per milioni e milioni di telespettatori in tutto il mondo. Vi si evidenziava giustamente la responsabilità morale del popolo tedesco nel credere che gli ebrei complottassero contro la civiltà occidentale, della quale la Germania rappresentava l’ultimo baluardo. E che quindi eliminare un ebreo significava eliminare un nemico. Non viene più riproposta in tv, da almeno quarant’anni. Perché?

La sua rimozione dai palinsesti non è solo un fatto televisivo, ma un segnale culturale: la Shoah non viene più presentata come monito collettivo, bensì archiviata come un capitolo chiuso. È questo silenzio, più ancora del negazionismo, a logorare la memoria.

Oggi i leader occidentali, come detto, a partire da Trump, definiscono Netanyahu difensore dell’Occidente. Però qual è l’effetto di questa definizione? Di approvarne l’ultranazionalismo, che è lo stesso veleno a cui fece ricorso Hitler. Il che facilita tra i nemici di Israele, che crescono continuamente, l’equazione, Netanyahu uguale Hitler. Il che va oltre la critica a Israele per estendersi all’ebreo in quanto tale.

I due soggetti politici, ovviamente non possono essere messi sullo stesso piano, il che però non esclude la comune condivisione della venefica pozione nazionalista. Tornata oggi ad essere apprezzata da molti politici, a cominciare, tra gli altri, da Giorgia Meloni che si autodefinisce, proprio come Hitler, dalla parte dell’Occidente. Ma quale Occidente? Quello illuminista e liberale? O quello razzista e fascista? Risposta scontata, quello razzista…

Per farla breve, Netanyahu può essere definito come l’affossatore della Shoah. Non soltanto perché ne logora il significato metastorico, ma perché contribuisce, con la sua politica, a rendere accettabile il silenzio. Un silenzio che i palinsesti televisivi hanno anticipato archiviando opere come “Olocausto”, e che la retorica nazionalista ora consolida a livello politico. Così la memoria diventa retorica di parte, e la tragedia si riduce a strumento di potere.

In definitiva, il nodo non è la legittimità della difesa di Israele dopo il 7 ottobre, ma la piega nazionalista impressa dal governo Netanyahu. Una piega che, sovrapponendo ebraismo e aggressione, rischia di capovolgere il senso stesso della memoria della Shoah. L’Olocausto, da monito universale contro ogni totalitarismo, viene così progressivamente svuotato e rovesciato: non più tragedia da ricordare, ma argomento da strumentalizzare.

In questo modo si apre la strada a un antisemitismo “di ritorno”, tanto più insidioso quanto più travestito da discorso sulla pace. Ecco perché, se tra cent’anni la Shoah dovesse scivolare fuori dalla coscienza collettiva, la responsabilità non sarà soltanto dei negazionisti, ma anche di chi oggi la logora dall’interno con la retorica del nazionalismo.

Carlo Gambescia

(*) Secondo l’Anti-Defamation League, quasi il 46% degli adulti nel mondo (2,2 miliardi di persone) nutre ideologie antisemite, il doppio rispetto a dieci anni fa. Solo il 39% dei giovani 18-34 anni riconosce l’Olocausto, mentre molti non ne hanno mai sentito parlare (https://it.euronews.com/my-europe/2025/01/27/giornata-della-memoria-la-comunita-ebraica-mette-in-guardia-dallaumento-dellantisemitismo ).

mercoledì 20 agosto 2025

La sai l’ultima? Trump uomo di pace

 


Pace: parola magica. Risveglia in noi gli istinti migliori. Chi potrebbe non gradire un termine che evoca armonia, accordo, riposo? Insomma, le bibliche vacche grasse.

Ma la pace non è solo assenza di conflitto: qui in Occidente richiama progresso, viaggi, vacanze, supermercati pieni, aperitivi, parchi con cani e bambini, coppiette che si baciano al tramonto. Tutte quelle piccole gioie quotidiane che ci ricordano che vivere insieme può essere bello.

E allora come non gioire di fronte a segnali positivi nella guerra di aggressione russa all’Ucraina? Grandi leader si sono incontrati a Washington: Zelensky, in quasi abito da sera scuro, ha accettato di incontrare il dittatore; Putin ha fatto lo stesso da Mosca. L’Europa tira un sospiro di sollievo, pur tra qualche piccolo “se” e “ma”. E, naturalmente, Trump non si lascia sfuggire l’occasione: si autocelebra come uomo di pace.

Lasciamo da parte le esagerazioni della sua recente affermazione di aver “risolto sei guerre in sei mesi” – cosa che non corrisponde alla realtà –, in effetti si tratta più di cessate il fuoco fragili o negoziati ancora in corso, da Israele-Iran al Kashmir (India-Pakistan), dal Congo-Rwanda al Caucaso (Armenia-Azerbaigian), fino a Cambogia-Thailandia e alla disputa sul Nilo (Egitto-Etiopia). Insomma, più propaganda che pace vera e propria. Cose da colpo di tweet.

E naturalmente la settima sarebbe la soluzione della guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina. Probabilmente è ancora presto per cantare vittoria. Comunque sia, concediamo che un piccolo passo avanti è stato fatto. Vedremo.

Il punto, però, è un altro: Trump,  in base a ciò che dice e soprattutto fa,  può davvero definirsi “uomo di pace”? Diciamo tipologicamente?  No, e per cinque ragioni.

In primo luogo, la pace evoca cose belle, le “vacche grasse” di cui parlavamo. Chi crede davvero nella pace, a cominciare da un leader mondiale, non può negarle ad alcuni per riservarle ad altri. Trump, invece, militarizza gli Stati Uniti. Alla sua retorica di pace esterna contrappone una guerra interna: contro i migranti e chiunque non la pensi come lui. La sua “Gestapo”, l’ ICE (Immigration and Customs Enforcement), armata fino ai denti, effettua controlli per strada e raid all’interno dei confini nazionali, colpendo sproporzionatamente persone di origine ispanica basandosi su caratteristiche visibili o sull’accento. Una vergogna che evidenzia una politica interna di repressione sistematica e discriminatoria.

Quanto agli oppositori politici, il caso del Texas è emblematico: mandati di arresto contro deputati democratici assenti dimostrano un uso aggressivo del potere politico, permesso da Trump al governatore repubblicano. A questo si aggiungono le pressioni su giudici locali e l’arresto di Linda Wallace, giudice nera della contea di Rains, artatamente accusata di manipolazione di testimoni.

Infine Le azioni recenti di Trump — Commissione per la Libertà Religiosa, Ufficio della Fede e task force anti “pregiudizio anti-cristiano” — mostrano un orientamento verso l' integralismo religioso. Favoriscono i valori cristiani conservatori nella politica e nella sfera pubblica. Sollevano dubbi sulla separazione tra Chiesa e Stato e sulla pluralità religiosa negli USA.

E delle  guerre commerciali?  Delle mire,  sfacciatamente proclamate,  su Panama, Groenlandia e Canada? Ne vogliamo parlare?  

Questi episodi confermano il metodo di Trump, che agisce come un reazionario, razzista, integralista religioso e nazionalista. Tra gli uomini vuole  portare la guerra non la pace.

In secondo luogo, Trump non crede nell’eguaglianza tra gli uomini e non rispetta la pari dignità. Sta distruggendo la Costituzione liberale, la più antica tra quelle scritte. Se fosse un uomo di pace, non deporterebbe i migranti in catene, vantandosene. Come non evocare un antico fantasma? Quello dei nazisti, che prima di invaderla deportarono in Polonia gli ebrei tedeschi di origine polacca: scortate dagli sgherri di Hitler, lunghe file alla fontiera di uomini, donne, vecchi e bambini, con pochi marchi in tasca, destinati all’Olocausto.

In terzo luogo, Trump non è un uomo di pace perché ammira i dittatori e “uomini forti”. Di Putin ha detto che è “un genio”, di Kim Jong-un che è “molto intelligente” e che tra loro “c’è stato amore”. Ha definito Xi Jinping “un leader forte, quasi un re della Cina”, ha lodato Erdoğan come “rispettato in patria e all’estero” e celebrato Orbán come vero patriota. Dulcis in fundo, non si è risparmiato neppure con Giorgia Meloni, “donna forte”, esaltandone la durezza verso i migranti e il ruvido patriottismo.

In quarto luogo, Trump non è un uomo di pace perché pone aggressori e vittime sullo stesso piano. Un uomo di pace – per dirla terra terra – non metterebbe mai sullo stesso piano la moglie tradita e il marito traditore ( e viceversa): cioè Zelenski, aggredito, e Putin, aggressore. Indimenticabile il vergognoso trattamento riservato al presidente ucraino nella sua prima visita alla Casa Bianca. Anche nei giorni  scorsi, la benevola sufficienza con cui Trump lo ha accolto, rispetto al tappeto rosso steso per Putin, è significativa.

In quinto e ultimo luogo, Trump è un leader pericoloso. Con la sua ultima sparata – “ho risolto sei guerre in sei mesi” – non si limita a esagerare: mostra un modello di leadership inquietante e ricorrente nella storia. Come Napoleone, Hitler o Stalin, manifesta convinzione cieca nelle proprie illusioni e rifiuto di ascoltare chi dissente. Nel linguaggio di Lasswell, non è un amministratore calcolatore, ma un “agitatore”: un leader che vive di provocazioni, spettacolarità e reazioni emotive, con l’aggravante di avere accesso al potere più grande del mondo. 

Il rischio è che, credendo sinceramente alle proprie bugie, perda ogni contatto con la realtà e costruisca un ciclo di autoillusione, in cui la percezione personale prevale sui fatti. Ogni dichiarazione, ogni tweet, ogni rivendicazione non verificata diventa un potenziale detonatore di tensioni diplomatiche e conflitti.

Concludendo, altro che uomo di pace… il modello di leadership di Trump è quello della benzina sul fuoco.

Carlo Gambescia