L’Italia del dopoguerra, che ha visto l’istituzionalizzazione della sociologia come disciplina universitaria, resterà per sempre legata a due importanti nomi: Francesco Alberoni e Franco Ferrarotti.
Alberoni è scomparso l’anno scorso, e poche ore fa è giunta la notizia della morte di Franco Ferrarotti (1926-2024).
Se Ferrarotti ha lasciato un segno, lo si può scorgere nella concezione di una sociologia militante, non in senso ideologico, ma di impegno civile del sociologo nella soluzione del problemi sociali. Il sociologo come assistente sociale.
Sotto questo aspetto Alberoni si è mosso lungo linee assai
differenti: quelle di una sociologia storica, rivolta a indagare le
radici intellettuali dell’Occidente. Il sociologo come metodologo della
storia.
Del resto la storia nell’opera di Ferrarotti resta una specie di illustre sconosciuta. Di qui la sua condanna di Pareto e delle sociologie storiciste. Con Max Weber in cima alla lista dei colpevoli di storiografia selvaggia.
In qualche misura i lavori basici di Ferrarotti, che spaziano dalla sociologia del lavoro alla sociologia economica, rimandano a una sociologia della modernità e della modernizzazione, con un occhio assai critico verso lo sviluppo del capitalismo e per contro, più indulgente, verso il ruolo delle socialdemocrazie e del welfare.
In Ferrarotti si possono ritrovare gli elementi costitutivi della sociologia come ancella del welfare state. Un effetto di ricaduta, per alcuni perverso, del suo rifiuto della storia. Sotto questo aspetto non particolarmente interessanti restano le sue ricostruzioni storiche della disciplina e dei principali padri fondatori.
Ferrarotti resta indubbiamente una figura importante della nostra sociologia, diciamo però da punto di vista dello sviluppo accademico: della storia dell’istituzione sociologica, della sociologia come pratica e non come pensiero. Per inciso la sua fu la prima cattedra del dopoguerra. Nella stessa terna, se non ricordiamo male figurava anche Alberoni, che giunse secondo.
Ha pubblicato tanto (negli ultimi venti anni forse troppo), messo in cattedra eccellenti allievi, altri meno. Tuttavia non siamo in grado di indicare una sua opera fondamentale. Per capirsi: di Alberoni, non si può non indicare Movimento e istituzione, un classico delle scienze sociali non solo italiane. Ma di Ferrarotti? Forse qualcosa di metodologia, qualitativa, pensiamo al prezioso libretto, Storia e storie di vita (1981), alcuni scritti di sociologia del sindacato e delle imprese, risalenti agli anni Cinquanta-Sessanta, la memorialistica, spesso gustosa perché un pochino pettegola.
Ferrarotti ci ha lasciato anche un Trattato di sociologia (più edizioni) che non brilla per originalità.
Gran parlatore, buon didatta e conferenziere. Scoppiettante, sguardo di fuoco, si guardava continuamente intorno. E maestro dell’anatema, una pratica che scaturiva dalla nobile arte del determinismo sociologico. Cioè della sociologia secondo Ferrarotti… Guai a contraddirlo. Un vero suicidio accademico nell’Italia degli anni Settanta del secolo scorso.
Carlo Gambescia