mercoledì 13 novembre 2024

Secondo Ferrarotti...

 


L’Italia del dopoguerra, che ha visto l’istituzionalizzazione della sociologia come disciplina universitaria, resterà per sempre legata a due importanti nomi: Francesco Alberoni e Franco Ferrarotti.

Alberoni è scomparso l’anno scorso, e  poche ore fa è giunta la notizia della morte di Franco Ferrarotti (1926-2024).

Se Ferrarotti ha lasciato un segno, lo si può scorgere nella concezione di una sociologia militante, non in senso ideologico, ma di impegno civile del sociologo nella soluzione del problemi sociali. Il sociologo come assistente sociale.

Sotto questo aspetto Alberoni si è mosso lungo linee assai differenti: quelle di una sociologia storica, rivolta a indagare le radici intellettuali dell’Occidente. Il sociologo come metodologo della storia.

Del resto la storia nell’opera di Ferrarotti resta una specie di illustre sconosciuta. Di qui la sua condanna di Pareto e delle sociologie storiciste. Con Max Weber in cima alla lista dei colpevoli di storiografia selvaggia.

In qualche misura i lavori basici di Ferrarotti, che spaziano dalla sociologia del lavoro alla sociologia economica, rimandano a una sociologia della modernità e della modernizzazione, con un occhio assai critico verso lo sviluppo del capitalismo e per contro, più indulgente, verso il ruolo delle socialdemocrazie e del welfare.

In Ferrarotti si possono ritrovare gli elementi costitutivi della sociologia come ancella del welfare state. Un effetto di ricaduta, per alcuni perverso, del suo rifiuto della storia. Sotto questo aspetto non particolarmente interessanti restano le sue ricostruzioni storiche della disciplina e dei principali padri fondatori.

Ferrarotti resta indubbiamente una figura importante della nostra sociologia, diciamo però da punto di vista dello sviluppo accademico: della storia dell’istituzione sociologica, della sociologia come pratica e non come pensiero. Per inciso la sua fu la prima cattedra del dopoguerra. Nella stessa terna, se non ricordiamo male figurava anche Alberoni, che giunse secondo.

Ha pubblicato tanto (negli ultimi venti anni forse troppo), messo in cattedra eccellenti allievi, altri meno. Tuttavia non siamo in grado di indicare una sua opera fondamentale. Per capirsi: di Alberoni, non si può non indicare Movimento e istituzione, un classico delle scienze sociali non solo italiane. Ma di Ferrarotti? Forse qualcosa di metodologia, qualitativa, pensiamo al prezioso libretto, Storia e storie di vita (1981), alcuni scritti di sociologia del sindacato e delle imprese, risalenti agli anni Cinquanta-Sessanta, la memorialistica, spesso gustosa perché un pochino pettegola. 

Ferrarotti ci ha lasciato anche un Trattato di sociologia (più edizioni) che non brilla per originalità.

Gran parlatore, buon didatta e conferenziere. Scoppiettante, sguardo di fuoco, si guardava continuamente intorno. E maestro dell’anatema, una pratica che scaturiva dalla nobile arte del determinismo sociologico. Cioè della sociologia secondo Ferrarotti… Guai a contraddirlo. Un vero suicidio accademico nell’Italia degli anni Settanta del secolo scorso.

Carlo Gambescia

Musk e la legge del più forte

 


Per il nazionalismo vale la legge del più forte. Musk ha inveito contro i giudici italiani. E il governo Meloni, ultranazionalista, ha taciuto su una dichiarazione che se fosse sopraggiunta dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, paesi liberali, avrebbe scatenato un putiferio di reazioni. E invece, finora, la macchina propagandistica del governo l’ha liquidata  come una questione privata tra Musk e i giudici italiani.

Si badi, non si tratta di affinità ideologiche tra i reazionari americani e italiani ( o comunque non solo), ma dell’accettazione della volontà del capobranco che nel nazionalista – si ricordino le terribili parole di Hitler e di Mussolini, sull’indegnità di coloro che perdono le guerre – è norma di vita: feroce darwinismo militare. Perdi? meriti di soccombere.

Il che forse significa che, in precedenza, quando negli Usa governavano democratici e repubblicani liberali, l’Italia, quando e se si allineava, era perché subiva la volontà del più forte a Washington?

No, l’Italia, saggiamente, nel 1945, ritornò nell’alveo delle istituzioni liberali e di una splendida comunione di valori occidentali e atlantici. Ovviamente gli Stati Uniti erano i più forti, senza però farlo pesare. Qui l’intelligenza liberale di quello che oggi si chiama soft power. Come metro di paragone, tra hard e soft power, si pensi alle pesanti ingerenze sovietiche in Ungheria e della Cina in Tibet.

Si dirà ma la Seconda Guerra Mondiale,  la Corea, il Vietnam, le guerre del Golfo, l’Afghanistan, l’Ucraina non sono state forse guerre di ingerenza Usa? No, il contenimento e la  guerra  contro  il nemico fondamentalista, sono  una cosa, l’aggressione militare di un innocente un’altra. Altrimenti tra Mussolini e De Gasperi, tra Saddam e Zelensky non esisterebbe più alcuna differenza. Come pure, per essere più espliciti, tra autocrazia e liberalismo.

Ad esempio, gli Stati Uniti liberali, pur temendo il comunismo, si sono ben guardati, dal far cadere governi europei con la forza delle truppe uscite dalle basi americane per deporre presidenti francesi, tedeschi e italiani. Si dirà che la sola presenza era un deterrente. Ma come mai, il solo deterrente, a segni politici rovesciati, non è bastato con ungheresi, polacchi, cechi, eccetera? E sul punto non c’è tesi complottista che tenga. Si chiama comunione di valori liberali.

Ovviamente resta aperto il disastroso capitolo delle relazioni tra gli Stati Uniti e America centrale e latina. Che dire? Nessuno è perfetto. Tenendo però anche presente – non è una giustificazione – il carattere immaturo, caudillista e nazionalista di quei regimi politici, sicuramente non sempre in sintonia con la tradizione liberale europea. Che dovrebbero fare gli Stati Uniti? Cedere a Mosca? Oppure, come nel caso di Israele, fondamentale bastione liberale in Medio Oriente, lasciare che i fondamentalisti – nemici anche dell’Occidente – lo facciano a pezzi? Si chiama realismo politico liberale. E discende dalla comunione liberale di cui sopra.

Ora però, la svolta reazionaria del 5 novembre, vede imporsi, dall’altra parte dell’Oceano, dove inziarono le rivoluzioni liberal-democratiche, poi estesesi alla Francia e all’intera Europa, un capobranco, Trump. Con accanto Musk,  una specie di vice, che potrebbe succedergli:  si pensi all' imperatore adottivo secondo l'uso romano.

I due leader  credono  nella legge del più forte. Senza mezzi termini. Il che evidenzia  la contraddizione  del nazionalismo italiano costretto, come ogni altro nazionalismo,  a piegarsi dinanzi alla legge della giungla.

Il lato tragicomico è che la destra dalle radici fasciste, dalla quale proviene Giorgia Meloni, che ha sempre contrastato e con disprezzo l’americanismo, ora si trova a condividere la causa del peggiore movimento politico nativistico Usa dal 1945 ad oggi. Un vicolo cieco che ricorda quello in cui si infilarono i collaborazionisti francesi e italiani, tutti rigorosamente nazionalisti, ridotti in stato di semischiavitù politica da Hitler.

Il nazionalista si arrende sempre al più forte . Il senso della gerarchia animale – una specie di dariwnismo bellico – vale all’interno come all’esterno. In ogni nazionalista si nasconde l’animo dello schiavo.

Solo l’adesione a una comunità liberale, fondata sulla società aperta, sulla mediazione e la tolleranza, può tenere a bada i demoni del nazionalismo. E così è stato nell’Occidente euro-americano fino all’avvento di Trump e dei suoi ammiratori europei, quasi tutti  dalle simpatie fasciste, populiste e fascio-comuniste.

C’è un altro aspetto delle dichiarazioni di Musk che merita di essere evidenziato, probabilmente ancora più grave del servile richiamo della foresta al quale obbedisce il nazionalista. 

Quale? Il disprezzo tipico del cesarista, o aspirante autocrate, verso i giudici. Trump, Musk e gli altri esponenti delle destre europee non accettano la divisione dei poteri né la funzione di garanzia del giudice, il ruolo di contrappeso di un potere terzo. Per dirla fuori dai denti, Musk ha mollato un calcione allo stato di diritto.

Il mantra autocratico del cesarista è semplicissimo: il potere politico di Cesare non deve incontrare ostacoli. Soprattutto quando è votato da tutto il popolo o da una larga maggioranza di esso. Per il cesarista la minoranza non merita alcun rispetto e il giudice deve attenersi al volere della maggioranza. O, altrimenti, come dichiara Musk, “andarsene”.

L’ora è grave, anche perché quando sta accadendo,  sembra essere solo l’inizio di un  capovolgimento politico dei valori liberali.

Carlo Gambescia

martedì 12 novembre 2024

Cosa c'è sotto il pacifismo di Musk e Trump?

 


Che le guerre avvengano per colpa dei guerrafondai, o fabbricanti di armi, è una tesi che risale a Lenin quando teorizzò, in un celebre libro, il nesso tra imperialismo, anche militare-economico, e l’autodistruzione finale del capitalismo. 

Anche Musk, di recente, ha attaccato i guerrafondai, cioè l’industria occidentale delle armi, che sarebbe dalla parte di Zelensky. Stranamente, sull’imperialismo militare russo, Musk tace. Sono posizioni condivise anche da Trump.

Un passo indietro. Lenin giudicò addirittura con favore l’esplosione della Prima guerra mondiale, perché si augurava che dal conflitto, sorgesse, come poi fu, una guerra civile europea che avrebbe facilitato la conquista bolscevica del potere. Insomma, un pacifismo, quello leniniano, interessato e da risvolti rivoluzionari.

La strategia di Lenin fu la seguente: per un verso evocava la pace, per combattere i riformisti socialisti, più o meno schierati con i rispettivi paesi, e così attirare le masse pacifiste; per l’altro fece del suo meglio, appena giunto in Russia su un treno blindato tedesco, per armare e organizzare militarmente i suoi.

Dalla guerra civile uscì la macchina militare sovietica. Altro che il pacifismo di Lenin…

Quando Musk condanna Zelensky, a suo avviso al servizio dei guerrafondai, cioè dell’industria militare euro-americana, per un verso evoca la pace, per l’altro la indebolisce, perché la Russia continua ad armarsi, secondo i criteri della macchina militare sovietica, oggi russa, sorta ai tempi di Lenin. Per inciso, Trotsky, poi tolto di mezzo da Stalin, fu il suo primo comandante.

Musk pacifista come Lenin? Nel senso che ha un suo scopo recondito? Quale potrebbe essere? Lenin auspicava la rivoluzione mondiale. E Musk? Probabilmente crede nello sganciamento degli Stati Uniti e della Nato dal conflitto in Ucraina, per avvicinare Washington a Mosca. Non solo per fare buoni affari “tecnologici” o economici, ma perché Musk, e di riflesso Trump, detestano l’Europa dei diritti umani, dello stato di diritto, della separazione dei poteri. Dello “gne-gne” liberale (sembra quasi di sentirli…).

Inoltre sono personaggi dalla forte caratura autoritaria: danno ordini, giusti o sbagliati che siano, e pretendono sempre obbedienza; non si fermano davanti a nulla. Di conseguenza, si intendono meglio con un autocrate che con un leader liberal-democratico.

Dietro il pacifismo di Musk e Trump si nasconde un progetto che, come altre volte nella storia, piano piano sta prendendo forma, anche all’insaputa dei loro protagonisti: la transizione dalla liberal-democrazia alla autocrazia. Per fare solo un esempio, Cesare era un militare ambizioso, come Napoleone del resto. Però non studiarono fin da piccoli da monarchi o imperatori. Hitler invece, si fa per dire, aveva le idee più chiare. Mussolini meno.

E lo stesso vale per Trump e Musk. Molto dipende dalle circostanze e da un gioco di azioni e reazioni di non pochi attori politici stretti tra il caso e la necessità. Ma anche dal contesto e dalle idee dominanti.

In Occidente dopo ottant’anni sembra essere tornata in auge la figura del leader carismatico che si appella direttamente alle masse e disprezza le procedure liberali: una manna per personaggi autoritari come Trump e Musk.

In questo contesto segnato da ordini secchi e slogan politici, un’ Europa recalcitrante è di ostacolo. Per contro, l’aggressività delle destre europee si muove in perfetta sintonia con il neopacifismo americano.

Non è solo una questione di ritorno al passato. Di recupero dell’ isolazionismo americano, come si legge, ma di una decisa fuga in avanti verso il romanticismo politico. Trump e Musk odiano profondamente la liberal-democrazia al punto di cogliere qualsiasi occasione – ecco l’occasionalismo romantico – per liquidarla, anche di allearsi con il diavolo russo. E chissà cinese…

Di conseguenza, il pacifismo può essere utile, come per Lenin, per intercettare il favore delle masse e restare al potere il più a lungo possibile.

Risentimento e pacifismo, una miscela esplosiva. Si tratta però di una partita delicatissima. Molto dipenderà dal ruolo che giocheranno Russia, Cina e alleati politicamente fondamentalisti. Se crederanno o meno alla “voglia” di autocrazia di Trump, Musk e delle destre europee. Se li sentiranno come “dei loro”.

Il rischio, in caso di accordo tra tutte queste forze reazionarie appena ricordate, è quello di un mondo, in pace, ma governato da autocrazie divise in blocchi con l’ arma al piede. In caso contrario, sarà guerra, ma sempre tra autocrazie, con l’Europa nel mezzo a rischio di schiacciamento e sparizione.

Purtroppo la vittoria di Trump, per ora, non lascia spazio per un’alleanza liberal-democratica tra Europa e Stati Uniti. A un' auspicabile ripresa, come fu nel 1939-1945, delle forze liberal-democratiche.

Forze che, mai dimenticarlo, soltanto grazie al gigantesco riarmo americano ( che premiò anche l’Unione Sovietica), ebbero la meglio sul fascismo e sul nazismo. Mettendo nei cannoni non fiori ma proiettili perforanti.

Il mondo liberal-democratico vinse grazie a un enorme sforzo di volontà che portò alla superiorità militare. La stessa superiorità militare che oggi invece si nega all’Ucraina, per evitare, come dicono Musk e Trump, che vincano i guerrafondai. Quanto sono buoni…

In realtà i conti non tornano. A meno che non si considerino le autocrazie migliori delle democrazie liberali.

Carlo Gambescia

lunedì 11 novembre 2024

Nazionalismo (italiano) straccione

 


Cina. Alla visita di Giorgia Meloni in luglio ha fatto seguito quella del Presidente Mattarella. Sostanzialmente, l’Italia si muove nell’ambito degli accordi bilaterali, quindi in un contesto estraneo a qualsiasi forma di multilateralismo. Come del resto si evince dalle seguenti dichiarazioni:

Vogliamo rafforzare il Partenariato strategico globale e promuovere le relazioni bilaterali per entrare in una nuova fase di sviluppo”, ha confermato il leader cinese. Senza “tentazioni di anacronistici ritorni a un mondo di blocchi contrapposti”, ha chiosato il presidente italiano. E le “differenze” di pensiero che pur sono tante non devono essere “ostative al confronto” (*).

Il problema è che di queste “differenze di pensiero” su diritti umani in Cina, guerra in Ucraina, Corea del Nord, Iran, crescente antisemitismo e guerra terroristica allo stato di Israele non sembra si sia parlato.

Pechino vuole partner ubbidienti. Nel quadro di una politica estera che auspica lo sviluppo strategico di due fattori decisivi: 1) il crescente isolamento degli Stati Uniti; 2)l’inarrestabile frazionamento nazionalistico dell’Europa.

Cina e Russia vincono su tutti i fronti: questa è la realtà. E Stati Uniti e Unione europea si preparano a procedere in ordine sparso. In questo contesto Meloni e Mattarella, per dire le cose brutalmente, vanno in Cina a mendicare contratti.

Qui si evidenzia ancora una volta, storicamente parlando la natura stracciona del nazionalismo italiano. Per un verso si predica la grandezza dell’Italia, si pensi a Crispi e Mussolini, per l’altro si è consapevoli della nostra debolezza, sicché si cerca un protettore. Piace l’uomo forte: Crispi guardava a Bismarck, Mussolini si gettò nelle braccia di Hitler. A dire il vero, anche Trump potrebbe essere visto come tale. Ma vuole ballare da solo. Facendo così un favore a russi e cinesi.

L’Italia tende la mano, coperta di stracci, cercando però di darsi un tono, nascondendo rammendi e fondo consumato dei gomiti delle giacche. Uno spettacolo rivoltante.

Si dirà che l’Europa non funziona, la Russia fa paura, gli Stati Uniti barcollano (con Biden) o nicchiano (con Trump), quindi si dovrà fare da soli. O comunque barcamenarsi.

Il che ha un fondamento, se non fosse che il realismo di Meloni e (sembra) di Mattarella è un realismo di corto respiro. Non si capisce, o meglio non si vuole capire, che il rafforzamento di Cina e Russia punta prospetticamente alla sottomissione dell’Occidente, prima favorendo le divisioni, poi inglobando, un boccone per volta, ciò che resta dell’Europa libera. Dopo di che, inutile nasconderlo, potrà seguire quella manovra a tenaglia sugli Stati Uniti, già a suo tempo teorizzata da Hitler, però con la Cina al posto del Giappone.

Detto altrimenti, siamo davanti a potenze imperiali che nulla hanno imparato, nulla hanno dimenticato. Sicché, intanto, ogni punto messo a segno dal bilaterismo russo e cinese (anche sotto il paravento dei summit Brics, che sono una specie di foglia di fico) è un punto in meno per un mondo libero e multilaterale.

Giorgia Meloni che ne sa della società aperta? Nulla. Proviene da un partito, anticapitalista e antiliberale, che non ha mai digerito la sconfitta del 1945. Anzi cerca rivincite. Di qui la sua simpatia ideologica per le dittature, ridipinta con i colori del realismo politico (però di corto respiro, come detto).

Quanto al Presidente Mattarella, sospendiamo il giudizio, anche se va sottolineato, che come cattolico di sinistra non ha mai amato l’Occidente liberale, perché a suo avviso troppo consumista, capitalista e secolarizzato.

Mattarella, dovrebbe invece riflettere su un punto. In un’Europa in cui si celebra il nuovo asse tra Italia-Ungheria, in sostituzione, si cinguetta, di quello franco-tedesco (si badi, Francia e Germania sono sotto il pesante tiro d’artiglieria delle destre interne, estreme destre come in Italia e in Ungheria), il suo pensiero dovrebbe andare a Kurt von Schuschnigg: cristiano-sociale, ultimo cancelliere austriaco, defenestrato nel 1938 dai nazionalsocialisti al momento dell’annessione dell’Austria alla Germania (Anchlusss).

Schuschnigg credeva di poter tenere a bada gli scherani di Hitler. Così non fu.

Il parallelo storico non piace? Esageriamo? Monomanie metapolitiche?

Si rifletta. I cinesi vendono armi ai russi. Truppe della Corea del Nord (dove, per dirla alla buona, non si muove foglia che la Cina non voglia) sono schierate contro l’Ucraina. Dalla Nuova America di Trump, si fa sapere che le conquiste militari russe non si toccano. E Mattarella che fa? Come Schuschnigg si illude di poter controllare la situazione. E di conseguenza rischia di finire come Schuschnigg.

Si dirà, siamo soli, che possiamo fare? Si pensi allora al grandissimo discorso di Churchill su “sangue, fatica, lacrime e sudore” con Hitler pronto a invadere la Gran Bretagna.

Non esiste un altro Churchill? Altri tempi? L’Europa pensa solo agli aperitivi?  Che vi anneghi allora.

Ai pochi coraggiosi, e i prossimi saranno gli ucraini, non resta che l’onore di cadere con le armi in pugno. E non travestiti da cinesi e russi. Come Mussolini, che si mascherò, per scappare ai partigiani, da soldato tedesco.

Ultimo pietoso ritratto, neppure d’autore, del nazionalismo straccione italiano.

Carlo Gambescia

domenica 10 novembre 2024

Trump, il paladino degli anti-woke

 


Dal punto di vista metapolitico i fenomeni culturali rispondono a un principio di razionalizzazione-giustificazione. Esistono due fasi: fase A in cui a livello di tendenza (cioè quando “si tende” a comportarsi in un certo modo), alcune idee si diffondono, egemonizzando alcuni gruppi sociali; fase B in cui la tendenza, da egemonia a macchia di leopardo, si trasforma in dominio, non sempre assoluto, cioè in istituzioni e comportamenti stabili, ( quando “ci si deve” comportare in un certo modo).

Nella fase B prevale la razionalizzazione, nel senso della giustificazione, anche storiografica, di ciò che in precedenza era solo tendenza, prima tra pochi, poi via via tra un numero sempre maggiore di individui. Un consolidamento che può assumere l’aspetto del dominio di una tradizione: una specie di centro dal quale si irradia una forma di mentalità diffusa, che va puntellare il comportamento e le pratiche quotidiane degli individui, con trame comunque imperfette, che impongono, quando necessario, il potere sanzionatorio della legge.

Ora questa “benedetta” cultura woke (scegliamo questa accezione), che, una volta raffigurata dalle destre come un pericolo, ha consentito addirittura a Trump, il paladino dell’anti-woke, di spaventare gli elettori e  vincere , in quale fase si trova? Fase A o fase B?

Diciamo che a livello di fase B, cioè di cultura istituzionale, è esistita ed esiste solo nell’immaginario politico della destra. Non c’è un dominio. Per capirsi: niente a che a vedere con la forza istituzionale di fenomeni come il cristianesimo, il confucianesimo, l’islamismo, vere e proprie tradizioni “irradianti”.

Per contro, l’Occidente euro-americano, tradizione piuttosto giovane, riflette le idee moderne di una società aperta, dove al momento nessuno obbliga nessuno a donare o testare in favore della chiesa, a sacrificarsi al volere dei padri, a pregare cinque volte al giorno. Chi lo fa, lo fa per libera scelta.

Pertanto, la cultura woke, quando intesa in senso neutro, rinvia a una cultura della ricerca dell’eguaglianza diffusa (sintetizziamo), da concretarsi in nuovi diritti. Una cultura che i suoi sostenitori promuovono nelle varie sedi istituzionali e sociali. Siamo quindi in piena fase A. Quindi il dominio della cultura woke è solo nelle fantasie politiche della destra, da sempre però nemica dell’eguaglianza. E che perciò ne amplifica la pericolosità, dipingendo il diavolo woke più brutto di quel che è realmente.

Anche perché la cultura dell’eguaglianza, derivando dalla cultura dei diritti dell’uomo (e del cittadino) è un inevitabile portato del pensiero moderno. Di conseguenza, se si butta a mare la ricerca dell’eguaglianza (e la cultura woke), come concetto e come pratica, si getta via la modernità.

Ciò significa che le destre, nelle varie sfumature (tradizionalisti, reazionari, conservatori, populisti, fascisti e nazisti), che gridano al lupo al lupo woke, sono le stesse che da almeno tre secoli guardano con disprezzo alla modernità. Rifiutano al moderno, liquidato come il brutto anatroccolo, l’ultimo arrivato, una specie di parvenu, la funzione di centro irradiante svolto ad esempio dal cristianesimo, dal confucianesimo, dall’islamismo. Un ruolo che invece spetterebbe al moderno, sia di fatto, perché ha cambiato il mondo in meglio, sia di diritto, per una par condicio metapolitica, cognitiva diciamo.

Per fare solo un esempio di quanto sia radicata a destra la visione antimoderna, oggi Veneziani su “La Verità”, inneggia a Trump, paladino anti-woke, perché – così scrive – avrebbe riportato l' America sulla Terra, al principio di realtà. Che però – ecco la pericolosità della destra – in un intellettuale dalle radici fasciste come Veneziani, rimanda alle rigide gerarchie di valori del pensiero controrivoluzionario, da Maistre e Bonald a Hitler e Mussolini. Insomma, Trump come nuovo uomo delle provvidenza. Che poi Trump ci creda meno, è un’altra storia. Veneziani colleziona santini  intregralisti da quando aveva i calzoni corti.

Quel che è fondamentale comprendere è che dietro l’ingannevole critica preventiva al woke c’ è il rifiuto della modernità. Pertanto la destra, non solo rifiuta i diritti LGBT eccetera, ma l’idea stessa dei diritti, inevitabilmente collegata, come detto, all’idea di modernità.

Che poi certa sinistra giacobineggiante voglia affrettare i tempi e passare dalla fase A e B per decreto è un errore. Però, cosa che deve essere chiara: la sinistra, giacobina o meno, si muove all’interno delle modernità e non contro come la destra.

Una differenza non da poco. Per capirsi, un giacobino può, magari con fatica, trasformarsi in riformista, un fascista resta un fascista. Come del resto provano, nel loro piccolo (per dirla con un personaggio di Pupi Avati) gli articoli di Veneziani.

Carlo Gambescia

sabato 9 novembre 2024

Afascismo , “sinistra al caviale” e olio di ricino

 


Chi scrive e studia da anni ha antenne sensibili. Anche se al punto in cui siamo, che vede i fascisti, o comunque qualcosa che somiglia molto, al governo, asserire che ” sono ritornati” è una specie di segreto di Pulcinella.

In realtà sono fascisti particolari che in pubblico non parlano mai di fascismo. Che praticano una sorta di afascismo, che permette loro, di spaziare, senza far capire l’appartenenza di certe idee, pescate nella riserva per trote della cultura della tentazione fascista: tradizionalismo, confessionalismo, antiprogressismo, antisocialismo, familismo e comunitarismo, statalismo pedagogico e nazionalismo.

E in questa sottile operazione Giorgia Meloni gode del sostegno della Rai, di Mediaset, della stampa più o meno organica alla destra, nonché delle grandi agenzie di stampa. Adnkronos e Agi sono normalizzate o quasi da tempo, Ansa, sulla buona strada.

Il meccanismo è semplice: la normalità comunicativa. Che, come ben sanno i tecnici, è fatta di omissioni e reticenze.

Ad esempio, oggi, sfogliando le pagine Ansa si scopre un articolo, che apparentemente sembra sminuire la battuta di Gorgia Meloni sulla “sinistra al caviale”, dai portafogli pieni, lontana dai lavoratori (*).

Il pezzo va lodevolmente indietro di cento anni, parla dei “socialisti allo champagne”, secondo una classica definizione che risale alla fine dell’Ottocento. Però – ecco l’afascismo Ansa in sintonia con le piroette di Fratelli d’Italia – non c’è alcun accenno alla pesantissima deriva fascista del termine.

L’articolo non dice nulla su chi amplificò, a livello di regime, l’odio antisocialista dei reazionari (in primis le correnti nazionaliste e antisemite) di inizio Novecento. Un livore diffuso che aveva trovato terreno fertile anche tra gli stessi socialisti e sindacalisti rivoluzionari, che sensibili alle idee prefasciste di Sorel, scorgevano, come il “socialista” Mussolini, nei riformisti  solo dei bevitori di champagne. Un odio, sia detto per inciso, che collega la fase socialista con quella fascista del futuro “duce”, in nome del disprezzo quasi fobico per ogni forma di riformismo di tipo umanitario.

Cioè, che andava chiarito? Che si comincia con lo champagne e si finisce con l’olio di ricino. E invece Ansa ha taciuto. O se si preferisce, omesso. E qui bene ha fatto la Schlein, nel botta e riposta con la Meloni, a parlare di una specialità a quei tempi molto richiesta nelle farmacie. E di cui facevano le spese gli stessi farmacisti non allineati.

In quel “sinistra al caviale” cova un odio atavico, prima capitalizzato dal fascismo, poi da Giorgia Meloni.

Va anche detto che le ultime generazioni nulla sanno dell’olio di ricino che gli squadristi, dopo il manganello, somministravano agli oppositori. Una goliardata, secondo alcuni benevoli storici. Alla quale però si accompagnavano regolarmente omicidi politici, gravi ferimenti, distruzioni di sedi politiche, sindacali e di giornali. L’olio di ricino evoca la sconfitta della ragione.

Pertanto le parole della Schlein rischiano di cadere nel vuoto. Dal momento che la gente comune, soprattutto dove prevale la cultura del risentimento verso la ricchezza, vede attori, registi e intellettuali votare la sinistra. Il fatto poi, che l’attore “di sinistra” si spenda per i migranti, è addirittura giudicato un fattore aggravante, perché, come spesso si legge, le star di Cinecittà e Hollywood dovrebbero occuparsi “prima” degli italiani, degli americani, eccetera.

Cioè l’umanesimo, come nell’antisocialismo mussoliniano, diventa una colpa. Un danno per la nazione, che ogni vero patriota deve amare come se stesso, eccetera, eccetera. 

Inoltre, come detto, si fa sempre più sfumato se non inesistente il ricordo della violenza fascista che accompagnava la “bevuta” di olio di ricino, obbligatoria per il disgraziato oppositore. Tra l’altro, non era una goliardata. Dietro vi era la volontà di umiliare l’avversario politico, costringendolo a calarsi i pantaloni…

Riassumendo, Ansa che sposa la strategia meloniana dell’ afascismo, Schlein, che reagisce, però dice le cose e metà, come del resto tutta la sinistra quando riserva l’epiteto di fascista solo per Trump e Musk, ignorando che le radici del fascismo sono in Italia.

Sicché l’evocazione di una “sinistra al caviale” lascia il segno, mentre quella – mettiamo – di “destra all’ olio di ricino”, suona, quando qualcuno ricorda, come un residuato bellico. Oppure, proprio ad essere severi, la si liquida come una simpatica goliardata dei Giamburrasca fascisti.

Sarà durissimo mandare a casa questa gente.

Carlo Gambescia

(*) Si legga qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2024/11/08/dal-caviale-al-rolex100-anni-di-ironia-verso-la-sinistra_88b23ca2-a24b-4524-b5f3-909bfa85821f.html .

venerdì 8 novembre 2024

Il caso Raimo e il rischio del conformismo da stipendio

 


Il caso della sospensione di Christian Raimo ispira una riflessione che desideriamo condividere con i lettori.

Si tratta di un docente di estrema sinistra, sicuramente non un riformista. Candidato da AVS  alle scorse europee, ma non eletto. Non si capisce bene se i tre mesi di sospensione e decurtazione dello stipendio al 50 per cento  siano stati comminati dall’Ufficio Scolastico Regionale (il vecchio Provveditorato) per le ingiurie rivolte al Ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara o semplicemente per aver espresso le sue idee, o per entrambe le cose (*).

Ovviamente le idee di Raimo, non sono in sintonia, non solo con quelle di Valditara (leghista), ma con quelle di un governo che professa idee altrettanto radicali, ma di segno contrario, e tra l’altro, non nuvolette di fumo, ma idee in via di realizzazione. Si pensi al perfido trattamento dei migranti, alla dura gestione dell’ordine pubblico, al familismo legislativo, eccetera.

Christian Raimo, oltre che insegnante alle scuole superiori, è scrittore pubblicato da Einaudi, Laterza, Feltrinelli. Quindi una figura pubblica.

A pelle, per così dire, non condividiamo le idee del professore. Citiamo da X. Così, un piccolo assaggio: “La lotta politica sarà tra ecofascismi e movimenti internazionalisti di politica della cura. I prossimi anni saranno solo guerre culturali come distrazione dall’unico vero conflitto, tra chi vuole salvare sé stesso e chi ha a cuore anche la vita del resto del mondo” (**).

Ciò significa che la “guerra culturale”, dovrà essere ? sarà? (ecco la vecchia contraddizione mai risolta a sinistra tra politica delle armi e armi della politica) sostituita da una specie di guerra civile (annunciata?) tra buoni (chi ha a cuore, eccetera) e cattivi (chi vuole salvare solo se stesso).

Di riflesso, tra questi borghesi egoisti verrebbe automaticamente classificato anche il sottoscritto, un liberale, che, pur essendo contrario a qualsiasi forma di autoritarismo, come quello che è alla base del provvedimento preso contro il docente, teme, per usare la terminologia di Raimo, l’ecofascismo come l’ecosocialismo.

Però ecco il punto, la liberal-democrazia si distingue dalle altre forme di regime politico – e per il governo Meloni questa sarebbe una debolezza – per il rifiuto di sospendere un professore solo perché ha espresso idee contrarie a quelle governative.

È vero che Raimo ritiene di essere dalla parte del bene assoluto, come un profeta dell’Antico testamento, ma è altrettanto vero che ufficio regionale, ministero e governo, che in una liberal-democrazia dovrebbero garantire la libertà di espressione, si propongono invece di conculcarla, regolamento statal-sovranista alla mano.

Per capirsi: Raimo è nel suo diritto, Provveditorato, Ministero e Governo no. È un’estremista? Certo, ma lo è a parole. Esercita la sua libertà di espressione. Per contro, la misura punitiva presa contro Raimo, oltre che illiberale, rischia di favorire solo il conformismo da stipendio. Una specie di silenzio degli innocenti, da parte degli altri insegnanti, costretti a tacere per paura di perdere il posto, o comunque stimolati a cedere alla dolce violenza del quieto vivere. E come noto, chi tace acconsente.

Entro certi limiti però. Qui emerge la stupidità del fascista, vecchio e nuovo. Un somaro, cresciuto a chiacchiere e distintivo, che non conosce neppure la storia del fascismo. Mussolini, con tutto il suo apparato repressivo, come testimoniano numerose biografie di intellettuali, allora studenti, non riuscì mai a bloccare del tutto la libera circolazione del pensiero nelle aule scolastiche e  universitarie. Pertanto chiudere la bocca a un professore, oltre che illiberale, è stupido e anti-storico. Il silenzio degli innocenti non è assoluto né eterno.

Alcuni penseranno che qualche studente di Raimo potrebbe passare all’atto, come purtroppo già accaduto in altri tempi, di piombo. In effetti il rischio esiste. L’estremismo, anche verbale, in particolari circostanze, può essere contagioso fino a giustificare il lancio della prima pietra. Però, dal momento che viviamo in un mondo imperfetto, in cui si corrono dei rischi, è sempre preferibile l’estremista in cattedra al conformismo da stipendio.

Purtroppo, Giorgia Meloni, ministri e zelanti provveditori, non sono in grado di comprendere queste cose. Il credo è sempre quello: libro e moschetto. Perciò ora si arroccheranno su posizioni pseudo-legalitarie, provocando reazioni altrettanto dure a sinistra. Si spera, invece legalitarie.

Stando così le cose, corre l’obbligo di porsi una domanda: chi favorisce il possibile passaggio all’atto, il professor Raimo o il Ministero?

Carlo Gambescia

(*) Qui la sintesi ANSA: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/11/07/raimo-sospeso-per-3-mesi-dalla-scuola-disse-valditara-cialtrone_00eded54-ad50-4c37-8fe7-93a5bf946fcb.html .

(*) Qui: https://x.com/christianraimo/status/1853138998232744009 .

giovedì 7 novembre 2024

Trump, Piantedosi e la banalità del male

 


C’è una tesi accettata dai trumpiani, e che gira, perfino tra gli oppositori e gli sconfitti (si veda ad esempio l’intervista a Nadia Urbinati su “l’Unità” di oggi): che la vittoria di Trump sia legata a un malessere sociale oggettivo, che il miliardario ha saputo intercettare, eccetera, eccetera. In sintesi: Trump passa, la malattia liberal-capitalista resta.

Ora, la bontà o meno della tesi del recidere l’albero capitalistico dalle radici, degli antitrumpiani di sinistra, non ci interessa. Almeno qui. Si rifletta su un punto però: come per le sofferenze mentali, le sofferenze sociali a meno non siano evidenziate da fatti oggettivi, sotto gli occhi di tutti, e sottolineiamo tutti, non sono facilmente diagnosticabili. Di conseguenza tra la realtà e l’immaginazione della realtà, cioè la sua razionalizzazione-giustificazione politica, si registra uno spazio enorme.

Detto alla buona: ognuno vede la realtà a suo modo. Ad esempio, tra la fame irlandese degli anni Quaranta dell’Ottocento, e chi oggi frequenti i Centri per l’impiego o sfogli un giornale, anche digitale, in cerca di lavoro, c’è una distanza siderale. Però certi osservatori, per ragioni di parte tendono a mettere sullo stesso piano il giornaliero irlandese senza terra e l’addetto alle vendite disoccupato. E qui si pensi ai libri mitologizzanti la povertà di Piketty. Come nel caso della Urbinati, anche Piketty, disprezza il liberalismo, e vede in Trump l’ ennesimo generale della guardia bianca capitalista.

Ci interessa invece un altro aspetto che va a collegarsi con il concetto, ispirato da Hannah Arendt, di banalità del male.

Per tornare a Trump: chiunque conosca la sua biografia, sa benissimo di che pasta è fatto, una specie di gangster politico, che non uccide, ma che, come nell’assalto a Capitol Hill, sarebbe comunque disposto a passare all’atto. 

L’antropologia culturale di Trump è l’esatto contrario dell’antropologia liberale, ad esempio di un Reagan o di un Roosevelt, che hanno comunque usato la violenza, ma non contro la democrazia liberale. Reagan ordinò un attacco aereo contro il dittatore Gheddafi, Roosevelt si oppose vittoriosamente al nazifascismo bombardando a tappeto dal cielo. 

Che poi Reagan e Trump siano stati oggetto di attentati, è cosa che negli Stati Uniti fa parte  dei rischi del mestiere di presidente, rischi che accomunano, diciamo, buoni e cattivi. Ma questa è un’altra storia.

Il problema è che coloro che lo hanno votato giudicano il comportamento anti-istituzionale di Trump, come qualcosa di perfettamente normale. Non degno di nessuna riflessione. Si comportano come l’ Adolf Eichmann, studiato dalla Arendt: che non era uno stupido, come non sono stupidi coloro che votano Trump, ma era e sono semplicemente soggetti sociali privi di qualsiasi idea. Come la maggior parte delle persone comuni. Cosa che in sè non è una colpa. 

Però, ecco il punto, ne fa individui predisposti a trasformarsi negli strumenti, quando la storia ne sforna uno, di soggetti potenzialmente eversori dell’ordine politico. Cosa che il liberalismo, una volta istituzionalizzato, rende più semplice proprio perché tale. 

In questo consiste la tentazione totalitaria – o se si preferisce fascista – che può trasformare un uomo, scollegato dalla realtà e dalla responsabilità, privo idee, nella rotellina di un ingranaggio che porta a privilegiare la normalità di ciò che fa ogni giorno, anche al proprio tavolo di lavoro, un vivere normale fatto di statistiche, promozioni, pratiche, e assalti a Capitol Hill (*).

Si può evitare? No, l’uomo è sempre a rischio. Si può però mitigare. Di qui l’importanza di élite liberali, capaci di vegliare e sorvegliare, perché ciò non accada. Tuttavia per il liberalismo, proprio perché tale, come detto, ciò è difficilissimo. La tirannia democratica come ben vide Tocqueville, della maggioranza delle teste vuote è sempre in agguato. Ma lasciamo da parte, almeno per oggi, una questione, quella del rapporto tra liberalismo e democrazia, di non facile soluzione in una democrazia di massa.

Concentriamoci invece sulla banalità del male. Citiamo un altro fatto interessante, che non riguarda gli Stati Uniti di Trump, ma l’Italia di Giorgia Meloni. 

Matteo Piantedosi, il suo Ministro dell’Interno, come giustifica la deportazione dei migranti? Si legga qui, si tratta di una dichiarazione che risale a ieri.

“Si è detto: come mai l’Albania? Io ricordo che il regolamento europeo (sulle nuove procedure di frontiera nell’ambito del Patto su migrazione ed asilo) ha assegnato all’Italia, in quanto Paese di frontiera, l’obiettivo di realizzare al 2026 più di 8mila posti disponibili per il trattenimento/accoglienza di migranti. Dobbiamo quindi predisporci per realizzarli” (**).

Qui non si tratta di tagli al bilancio, più o meno opinabili, ma della deportazione di esseri umani, fatto che passa in seconda linea, rispetto alla delega, in termini di mancanza di qualsiasi senso di responsabilità, a un iter burocratico, dietro il quale si nascondono il Ministro Piantedosi e coloro che lo hanno votato e scelto, come pure accade agli elettori di Trump quando votano un soggetto potenzialmente eversore del garantismo liberale. Probabilmente è in questo elemento eversore che consiste il "legame strategico" con  gli Stati Uniti, rivendicato da Giorgia  Meloni, nel congratularsi con Trump. L'esatto contrario dell'Atlantismo liberale.

Altra conferma, scegliendo una chiave letteraria, che il sonno della ragione genera mostri.

Carlo Gambescia

(*) Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli 2003, pp. 288-292 ( nell’appendice sulle polemiche successive all’uscita del libro).

(**) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2024/11/06/la-libra-naviga-verso-lalbania-8-migranti-a-bordo-_d9aa78c4-0516-4b8e-a1ba-62f5fbcfe40f.html .

mercoledì 6 novembre 2024

Vince Trump. La valanga

 


Questa volta si tratta di una valanga. Non nel senso stretto dei voti, ma di un fatto specifico. Quando Trump vinse nel 2016, in Europa la destra, attenzione l’estrema destra xenofoba – non parliamo di placidi conservatori, ma di ex militanti con un passato in Curva Sud – non era così forte come oggi. 

Quindi, semplificando i concetti, mettiamola così:  se atlantismo sarà, si tratterà di un atlantismo devastante, bieco e antiliberale: come se Mussolini comandasse in Italia e Hitler negli Stati Uniti. Un atlantismo però conflittuale: come capita quando predominano i nazionalismi, che, di regola, impediscono qualsiasi forma di governo comune.

Si veda, ad esempio, che accade anche in Europa: le destre nazionaliste vanno d’accordo solo su una cosa: cacciare via i migranti. Su tutto il resto litigano, ignorando l’arte della mediazione liberale, faticosa, talvolta melmosa, ma che evita di prendere a pistolettate gli avversari e qui  - grande punto debole liberale -  anche i nemici. Ma questa è un’altra storia. Diciamo, una pena al giorno.

Il termine valanga vuole indicare una massa di neve politica, che si è staccata a Washington e che, con la vittoria di Trump, mettendosi in moto, rischia di travolgere ciò che resta della cultura e società liberali in Europa e negli Stati Uniti. Perché la destra europea, per fare solo un esempio, non vede l’ora di abbandonare l’Ucraina al suo amaro destino. E troverà nell’isolazionismo di Trump, un potente alleato.

La futura consegna della nuova presidenza trumpiana sarà molto semplice: ognuno per sé dio per tutti. Detto altrimenti, dare risposte semplici a problemi complessi. Le stesse della destra europea. Sei un migrante? Fuori dai piedi. Vuoi commerciare con gli Stati Uniti? Paga il dazio. Eccetera, eccetera. Insomma nazionalismo e protezionismo su scala mondiale. Detto alla buona e per la gioia del tronfio elettore xenofobo: A casa mia comando io.
 

Con queste idee non si va lontano. La pace non si avvicina. Anche perché sulla Cina, a differenza della Russia, Trump non sembra intenzionato a mollare. Quanto a Israele e al mondo arabo e musulmano, Trump applicherà, un principio, se ci si  passa la battuta, da sempre gradito alle destre: nell’incertezza, mena. Quindi, nonostante le promesse elettorali, al posto di Israele non dormiremmo sonni tranquilli.

Come ieri dicevamo, nello stile sciolto di Fb,  a un nostro lettore, Walter Ciusa, che tra l’altro conosce bene gli Stati Uniti attraverso il suo cinema,

il mondo si va spostando, di emergenza in emergenza (vere o false), verso soluzioni autoritarie dai potenziali sviluppi fascisti (la famigerata tentazione fascista di cui parlo spesso). Si può provare a ostacolare, ritardare, come dice lei turarsi il naso, ma “c’è voglia” di capi carismatici, capaci di andare per le spicce: basta chiacchiere liberali, si sente dire. Il popolo deve comandare però solo un capo sa cosa è bene per il popolo. Risorge l’eterna alternativa tra regimi che promettono sicurezza in cambio di obbedienza e regimi che garantiscono la libertà. Purtroppo il regime liberale, difendendo la libertà, favorisce i suoi critici e in particolare chi usa la libertà per sopprimerlo. Qui la sua debolezza. Trump, se vince un’altra volta, non trasformerà di colpo l’America nel nuovo Quarto Reich, ma porrà le basi per un incrudelimento dei rapporti di ogni tipo, all’interno come all’estero. Trump è un nazionalista sfegatato e va d’accordo con i capitalisti Usa parassiti, autarchici, isolazionisti, che vivono dei dazi, condannati da Pareto e da tanti altri economisti liberali. Ma non finisce qui. Dopo Trump ne verranno altri. Caro Walter, lei è più giovane di me, ma queste cose vanno oltre le nostre vite, fermo restando, perché la storia è capricciosa, le improvvise accelerazioni” (*) .

Sono passate solo poche ore, ma sottoscriviamo integralmente. Trump ha vinto e sull’Occidente sta calando una valanga. Ci piacerebbe vederli in viso, uno per uno, elettori e simpatizzanti di Trump, li immaginiamo, di qua e di là dell’Oceano, come l’Alberto Sordi, borghese piccolo, pronto a farsi giustizia da solo.

Come asserisce un nostro mite lettore, Mauro Cianci, usando un’ espressione classica che ben dipinge l’impotenza liberale dinanzi allo scatenarsi dei peggiori fenomeni dell’atmosfera politica, si tratta del solito elettore che da duemila anni vota Barabba e manda a morte Gesù.

Ovviamente Kamala Harris non è nata in una grotta di Betlemme, ma resta comunque, al di là di ogni questione di merito,  una candidata coraggiosa, una lottatrice, altrimenti non avrebbe accettato di salire su una nave che stava per colare a picco. Ridicolizzata, se non addirittura oltraggiata, dalla stampa di destra di mezzo mondo, Kamala Harris si è battuta fino all’ultimo voto. Onore alla leonessa sconfitta

In realtà, il problema ora è un altro: Trump o non Trump, o dopo Trump, ormai la valanga è in moto e rischia di travolgerci tutti. E non era ed è facile opporsi alla furia degli elementi politici.  

Queste non erano elezioni di routine.  E ora, ripetiamo Trump o meno,  l'argine è rotto. Lampi,  tuoni, acqua a catinelle: per dirla  con i  grandissimi Credence Clearwater Revival, "See the bad moon a-rising/I see trouble on the way/ I see earthquakes and lightnin' /I see bad times today".

Ed è già accaduto una volta: nel “Secolo breve”, il XX, così definito da uno storico nostalgico del marxismo, oggi scomparso. Che in un patetico libro, dedicato al Novecento, quasi rimpiangeva il secolo dei totalitarismi per le grandi passioni politiche suscitate da Marx ed Engels. Ignorando il sinistro contributo del  leninismo al totalitarismo.

Ecco, ora, Hobsbawm sarà contento, il “Secolo breve” si è allungato fin dentro il XXI secolo. Ma intorno a noi vediamo solo borghesi piccoli piccoli, che tutti insieme marciano compatti  e inarrestabili al grido di "Make Great Again" le rispettive  patrie: l’America, l’Italia, la Germania, l’Ungheria, l’Austria, la Francia. E così via.

È una valanga… E come detto, che va oltre Trump.  "See the bad moon a-rising".

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.facebook.com/photo/?fbid=3953899808230801&set=a.1388148961472578 .

martedì 5 novembre 2024

Elezioni americane: liberali contro cesaristi

 


Trump nel suo precedente mandato non ha trasformato gli Stati Uniti nella Germania hitleriana. Anche Biden non ha tramutato l’America in Sodoma e Gomorra.

Quindi lasciamo da parte, almeno per il momento, le mitologie politiche. E interroghiamoci su una questione fondamentale: qual è, ridotta al nocciolo del discorso, la differenza “concettuale” tra Donald Trump e Kamala Harris, già vicepresidente con Biden?

Insomma, non è una questione di programmi, né di retorica politica ( o comunque non solo). Del resto tra i due candidati sono spesso volate parole grosse. Quindi sotto questo aspetto pari sono.

Allora dov’ è la differenza tra Donald Trump e Kamala Harris ? L’autentica differenza risiede nella distanza tra approccio cesarista e approccio liberale.

Il cesarismo, esclude la mediazione, non ama i compromessi, si rivolge direttamente al popolo; l’approccio liberale invece vive di mediazioni e compromessi e nel rispetto della democrazia parlamentare. Sono due approcci profondamente diversi, il primo è figlio prediletto dagli aspiranti dittatori, il secondo rimanda alla normale politica di alti e bassi che innerva le democrazie liberali. Un dittatore, invece, promette solo alti.

Per fare un esempio di compromesso capace di non far saltare le regole, si pensi a quando nel 2000 Al Gore, dopo alcune controversie legali, intuendo che non si sarebbe arrivati a nulla, riconobbe la vittoria per pochi voti di Bush figlio. Tutto questo per  impedire  il  diffondersi  della sfiducia nei riguardi del sistema elettorale americano.

Da questo punto di vista, Al Gore, criticabile sotto tanti aspetti, provò di essere un uomo politico liberale. Di avere senso del limite. Di capire fin dove ci si può spingere, proprio per evitare di far saltare tutto. Al Gore al suo bene di candidato battuto ( o meno) preferì quello del rispetto (assoluto) delle regole di una buona democrazia liberale.

Per contro Trump nel gennaio del 2021 infiammò addirittura la piazza, istigando i suoi elettori a impadronirsi di Capitol Hill. Ci furono alcuni morti e numerosi feriti. Non pago, e salvatosi per il rotto della cuffia dall’impeachment, Trump ha già dichiarato che non accetterà la sconfitta perché asserisce di non fidarsi di un sistema politico ed elettorale corrotto. Sono parole veramente gravi. Da incorreggibile cesarista.

Ora, dei Democratici e di Kamala Harris si potrà dire tutto il male possibile, ma non che mostrino sfiducia nel sistema politico liberale. Infatti la Harris si è ben guardata dall’evocare complottismi elettorali e minacciare rivolte. Quindi accetterà il verdetto elettorale. Come è normale che sia dal punto di vista liberale.

In sintesi: il cesarista pone se stesso al di sopra della legge, il liberale al di sotto. E non è una differenza da poco. È la stessa che passa tra dittatura e libertà.

Oggi come oggi, l’elettore medio americano è in grado cogliere questa differenza? Diciamo che fino a Trump ha mostrato di capire. Dopo di che si è incanaglito nel cesarismo populista. Il che è grave perché dalla comprensione della differenza tra cesaristi e liberali dipende la vittoria di Trump o della Harris.

Concludendo, nelle elezioni di oggi, al di là dei programmi di politica interna e politica estera, risulta essere in gioco, benché se ne parli poco, l’approccio più generale alla politica. Cesaristi da una parte, liberali dall’altra.  Cioè Trump contro Harris.  Chi vincerà? Dipende. Da cosa? Ripetiamo,  dalla consapevolezza, fiducia e rispetto  degli elettori nel sistema delle regole liberali.

Carlo Gambescia

lunedì 4 novembre 2024

Spagna: il rischio del muro contro muro

 


Sui fatti di Valencia, sorvolando sulla gravità dei danni causati  da un evento climatico, di una portata tale, che andava  oltre ogni  possibilità di previsione, non va dimenticato che la Spagna fin dall’Ottocento ha una tradizione di minoranze, a destra e sinistra, caratterizzate dall’  estremismo.  Fucilavano, rastrellavano,  imprigionavano, con pari  crudeltà, generali illuministi e colonnelli controrivoluzionari.  

Un clima di feroce conflitto che durò dalle guerre carliste  fino alla guerra civile,  con  il parziale intervallo della Restaurazione, tra le due Repubbliche. La  guerra civile fu uno scontro, al di là della modernità della causa repubblicana, tra due minoranze estremiste, sullo sfondo di una Spagna dolente, imbronciata, arretrata, che  dopo esplosioni di rabbia, assisteva  con  rassegnazione alla  fucilazione di preti, di notabili conservatori, di sindaci socialisti e  sindacalisti.

Il miracolo istituzionale della transizione alla democrazia, dopo la morte di Franco, aprì a un periodo di pace e sviluppo. Un nuovo patto sociale tra socialisti e partito popolare, che  però  dalla metà degli anni Duemila  sembra ‘aver  lasciato  il posto a un  nuovo scontro tra posizioni  estreme. Il partito socialista di Zapatero e Sánchez  si è radicalizzato scontrandosi con un estrema destra molto agguerrita, al momento rappresentata da Vox.

Ieri a Valencia  tra la  folla dolente erano presenti alcuni  estremisti di  destra, che in stile 1936,  hanno aggredito il Presidente Sánchez  sfiorando persino la figura del Re.  Un atto gravissimo. Con i precedenti storici della Spagna si tratta di un brutto segnale. Perché  indica che il ciclo della violenza storica tra estreme rischia di riaprirsi.

Il problema non è la folla esasperata ( o non solo) ma la prospettiva di una radicalizzazione.  Non è un   problema di riorganizzazione della protezione civile. Va temuta l’ascesa delle estreme: lo storico conflitto conflitto  tra illuminismo e controrivoluzione per semplificare.

Una questione che sembra sfuggire ai  giornali spagnoli di oggi: tesi a salvare la figura del re e quasi  a giustificare, in chiave populista, l’aggressione a Sánchez, scomparso dalle prime pagine.

Il Primo ministro. come gridava la folla inferocita (qui la possibile saldatura tra popolo esacerbato ed estremisti di destra), può anche essere un “perro” (cane), però ai commentatori sfuggono i pericoli  di una riattivazione storica  del ciclo della   violenza tra minoranze estreme.

Il problema non sono le dimissioni di Sánchez ma di  come evitare  il muro contro muro.

Carlo Gambescia

domenica 3 novembre 2024

L' "asse" tra Russia e Corea del Nord. Il secondo tradimento dei chierici

 


Abbiamo atteso qualche giorno per commentare probabilmente uno dei fatti più importanti, una vera e propria svolta legata all’evoluzione della guerra in Ucraina, provocata dall’aggressione russa.

Ovviamente non parliamo del contro G7 dei Brics, per ora pura e semplice propaganda russa, ovviamente amplificata, dai mass media amici in Occidente, ma della nascita dell’ "asse" (termine già sinistro, rispolverato nei siti di estrema destra), con concreti risvolti militari, tra Russia e Corea del Nord. Si parla di schierare diecimila nordcoreani in Ucraina, ossigeno, anche simbolico, per la Russia.

Dicevamo abbiamo atteso. Perché? Per una semplicissima ragione. Leggere delle reazioni in Occidente. Che, invece, qui la vera notizia, non vi sono proprio state. La politica tace. E il silenzio domina anche tra i chierici. Cioè tra gli studiosi. Pensiamo a siti e riviste autorevoli. L’Ispi tace o quasi. “Limes”, nel parla nei sommari interni.

Perché questo silenzio?  Legato all' effetto sopresa?  No,escludiamo. E spieghiamo perché.

In primo luogo, perché a breve si voterà negli Stati Uniti. E i candidati, come accadde nella campagna per le presidenziali del 1916 con una guerra (semimondiale, iniziata nel 1914) in atto, temono, anche oggi, di esprimersi per non inimicarsi un elettorato inevitabilmente pacifista.

In secondo luogo, il silenzio americano è politicamente contagioso. L’Europa, nel timore di scontentare i canditati Usa, tace. Non vuole compromettersi. La destra filoTrump, in qualche misura, vede l’Ucraina come una “scocciatura”, una guerra da chiudere al più presto, non importa se con la vittoria di Mosca; la sinistra a sua volta divisa – pochi sostenitori dell’ Ucraina, molti, troppi, pacifisti, oggettivamente dalla parte dell’invasore russo – preferisce tacere in attesa che, così si ripete nel salotti buoni di Washington, la Harris, più a sinistra (pare) di Biden, punti sul graduale disimpegno americano.

In terzo luogo, la Cina, che, come impone una minima conoscenza storica del rapporti cino-coreani (di dipendenza, larvata o meno da circa 1400 anni, soprattutto sul Nord dalla Corea, da sempre divisa in più regni), fa paura. Il colosso cinese è armatissimo. E grosso modo, pur non avendo grandi tradizioni navali, minaccia Taiwan e guarda con ingordigia al Giappone e al Pacifico. Di conseguenza gli Stati Uniti temono di essere attaccati sul Pacifico (Pearl Harbor docet). Oceano che per Washington e una specie di Mare Nostrum del Romani. Però al momento traccheggiano.

Pertanto la Corea del Nord non può non godere del placet della Cina, che a sua volta è in ottimi rapporti con Mosca. Qui il senso della svolta: per usare un terminologia, da storia diplomatica europea dell’Ottocento, il prossimo passo, potrebbe essere una Triplice alleanza, con evidenti ricadute militari, tra Russia, Cina, Corea del Nord. Qui risiede il carattere di svolta storica costituito dall’intervento di truppe nordcoreane in Ucraina.

Vi è dietro un disegno preciso di Mosca? Difficile dire. Dal punto di vista ideologico la Russia è nemica dell’Occidente. Quindi esiste un puntello teorico (tradizione vs modernità): una razionalizzazione filosofica, diciamo, della “fame” moscovita. Inoltre, a partire dalla fine del Settecento la Russia ha tentato almeno due volte di invadere l’Europa, durante le guerre napoleoniche (senza la vittoria francese di Austerlitz i russi avrebbero anticipato  le mosse di Napoleone). E nella Seconda guerra mondiale. Non va perciò assolutamente escluso un disegno di sottomissione dell’Europa. Esistono seri precedenti.

Come si può intuire, il momento è gravissimo. Ma l’Europa, ormai priva di una sua fisionomia liberale, e soprattutto dell’orgoglio di essere liberale, si lascia andare alla deriva. Nelle sedi europee, con il nemico russo  alla porta di casa, si parla a vanvera,  di crisi climatica, di pensioni, auto elettriche, sanità, come se la società aperta fosse eterna. E cosa più grave ci si scaglia contro i migranti, li si deporta. Una politica autolesionistica: dal momento che proprio perché bussano alla nostra porta provano di credere nei valori occidentali più degli stessi europei.

La secolarizzazione e l’ integrazione del migrante, in una parola la sua “modernizzazione,” può infondere nuova linfa vitale nella società europea. Il migrante è una sfida culturale da vincere, non una maledizione come evoca la destra razzista e fascista, per dirla fuori dai denti.

Il che spiega, per tornare all’incipit, il silenzio dei chierici, dei professori e degli intellettuali, insomma degli addetti ai lavori, dei “geopolitici”, che sanno ma tacciono. Non vogliono dispiacere ai potenti. Per dirla con il titolo di un famoso libro di Julien Benda, tradiscono di nuovo, trasformandosi in servi dei nemici della causa liberale.

La prima volta fu con Hitler e Mussolini. Anche quello, esteso al Giappone militarista, fu un "asse"...

Carlo Gambescia

sabato 2 novembre 2024

Ci risiamo. Si ricomincia dalle SIM...

 


Molti italiani ancora non si rendono conto di essere governati da brutta gente, per dirla alla buona: da partiti, a cominciare da Fratelli d’Italia, con una forma mentis autoritaria, che non promette nulla di buono per il futuro.

Si deve saper cogliere i dettagli. E gli italiani, è noto, sono superficiali, nonché secondo Fabio Cusin (autore di una celebre Antistoria d’Italia), egoisti e profittatori.

Ovviamente si tratta di dettagli, abilmente oscurati da una feroce propaganda di destra, portata avanti dalla tv di stato e dalle reti della famiglia Berlusconi, con l’aiuto di un potente gruppo di giornali organici al governo Meloni.

 Perfino sul web, e in particolare sui social, la destra è particolarmente ramificata. La tecnica discorsiva della comunicazione politica, a ogni livello (Dal Tg1 al blog “identitario”), è quello di accusare di ogni male la sinistra, magnificando l’operato della destra. Oltre a dipingere, soprattutto sui social, i valori e l’operato del nazismo e del fascismo, come severi ma giusti e la società aperta dell’Occidente come una macchina repressiva al servizio di élite debosciate.

Non è un bel momento per la cultura liberale e nemica delle dittature.

Si dirà normale propaganda. Nulla di preoccupante. Una pagliacciata…. Tutto passerà, come sono passati Berlusconi e Fini.

Il punto è che il principale propagandista e azionista politico, Fratelli d’Italia, non ha mai fatto i conti con il fascismo. La sua ideologia è a dir poco autoritaria. E si vede. Però, per vedere, si deve guardare nella direzione giusta. E molti, anche tra la gente comune, non guardano, o guardano nelle direzione sbagliata.

Ad esempio nel recente disegno di legge “Sicurezza”, approvato alla Camera, si scopre, tra le altre magagne repressive, una misura, di cui non si è parlato affatto, ma che, a riflettervi, è di una gravità assoluta, soprattutto come dicevamo, per la forma mentis autoritaria che vi è dietro e che apre la porta a prospettive di tipo totalitario. Sì, totalitario, non esageriamo.

Si introduce l' obbligo per i negozi che vendono schede telefoniche SIM di chiedere copia del permesso di soggiorno ai clienti di nazionalità non appartenente all’Unione europea. Chi non rispetta questa norma rischia di vedersi chiudere il negozio per un periodo da cinque a trenta giorni (*).

Sorvolando (ovviamente si fa per dire) sulla gravissima discriminazione, di tipo etnocentrico, tra comunitari ed extracomunitari, che reputa questi ultimi pericolosi a prescindere, quindi colpevoli, senza aver commesso alcun reato: in pratica li si presume, a vista, colpevoli di immigrazione clandestina.

Sorvolando su questo, dicevamo, resta un fatto, come dire prospettico, inquietante, per il nostro futuro di libertà.

Ci spieghiamo subito. Partendo dalla presunzione di colpevolezza, e una volta introdotto un reato conesso in qualche misura all’ appartenenza a una certa razza, religione, eccetera, si potrà vietare la vendita, non solo di beni di largo consumo (come può essere una scheda SIM), ma anche lo stesso accesso al negozio che vende il bene di largo consumo. Che un giorno potrebbe essere un supermercato interdetto a un non caucasico, cioè bianco di pelle.

Capito? Questo negozio è “ariano”. Si ricomincia da capo…

Si dirà che stiamo esagerando, e che esistono le corti dei diritti e le corti costituzionali, alle quali si può ricorrere eccetera, eccetera. Certo. Però solo l’idea, di nuovo in circolazione, del discriminare le persone attraverso la “razza”, perché di questo si tratta, a ottant’anni dalla sconfitta del fascismo e del nazionalsocialismo, è di una gravità assoluta. Non solo per l’atto in sé, ma, ripetiamo, per l’inquietante prospettiva ideologica che si apre e che può riguardare tutti.

Si rifletta, la stessa forma mentis, una volta trasformata in routine politica e sociale, potrebbe imporre al negoziante di non vendere un chilo di pane a chi non presenti la certificazione di appartenenza alla razza bianca o alla religione cristiana. Oppure, addirittura, come giustamento paventato, a chi non abbia preferenze sessuali in linea con le proibizioni racchiuse nei capitoli 18 e 20 del Levitico.

Ritornando alla brutta gente dell’incipit, Giorgia Meloni, la stessa che ha definito le leggi razziali del 1938 una “macchia indelebile” (*), non sembra però comportarsi in mondo conseguente. Il che, al di là degli aspetti politici, non è un comportamento da brava persona. Mente, probabilmente cosciente di mentire. E il partito è con lei.

Brutta gente. Sul serio.

Carlo Gambescia

(*) Qui: https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01428625.pdf#page=40 .
 

(**) Qui: https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2022/12/13/meloni-leggi-razziali-una-macchia-indelebile-per-litalia_9c26e47e-6f1b-47d5-b593-5414e9190bc0.html .

venerdì 1 novembre 2024

Valencia. O della servitù volontaria

 


L’alluvione abbattutasi su Valencia è una manna per catastrofisti, ecologisti, welfaristi, anticapitalisti di destra e sinistra. Le immagini televisive, diffuse in tutto il mondo, delle automobili distrutte e impilate, sono motivo, anche estetico, di gioia per i nemici della libertà.

Cosa c’è di più significativo dell’automobile come simbolo di libertà individuale? Per contro, il compromesso socialdemocratico, sul quale si regge l’Europa, nelle due versioni, welfare nazionalista (destra) e welfare universalista (sinistra), da sempre si è battuto per un sistema dei trasporti collettivo. Perché, si ripeteva e ripete, così impone il bene comune, di cui lo stato è giudice supremo.

A questa antipatia welfarista verso l’automobilista si è aggiunto nel tempo il catastrofismo ecologista. Secondo il quale l’automobile inquina, e chi inquina provoca le alluvioni che distruggono il pianeta.

Questo mix di catastrofismo e welfarismo, ormai recepito dai governi di destra e di sinistra, con lievi differenze su tempi e modalità delle ingerenze statali, costituisce un’ideologia probabilmente più potente del comunismo, di cui rappresenta la prosecuzione come battaglia contro il capitalismo.

Se il comunismo evocava l’appartenenza di classe, il catastrofismo ecologista celebra la specie umana. Di più, tutti gli esseri viventi, dall’uomo all’ameba. Di conseguenza a chiunque rifiuti questa impostazione è negata anche la dignità protozoica.

Se c’è una pericolosa tendenza di fondo del nostro tempo, nemica della libertà individuale, la si può ravvisare nelle politiche pubbliche di stampo ecologista. L’idea che senza un ferrea limitazione della libertà individuale il pianeta andrà in rovina è quasi accettata da tutti.

I pochi che si oppongono, come anticipato, sono trattati come pericolosi ignoranti, nemici dell’umanità. Solo per quel che riguarda l’Italia – ma le cifre sono più o meno le stesse in tutto l’Occidente euro-americano – il novanta per cento degli intervistati è preoccupato o molto preoccupato per il cosiddetto cambiamento climatico (*).

Sono dati manipolati? Non è sede questa per discutere di questioni comunicative o legate al valore scientifico delle teorie catastrofistiche. L’unica cosa certa è che dal punto di vista metapolitico il catastrofismo welfarista, giusto o sbagliato che sia, determinerà una enorme concentrazione di potere politico in poche mani, forse senza precedenti nella storia, e questo a prescindere dal colore politico dei governi. Siamo davanti a una regolarità metapolitica. Anzi a più di una.

La particolarità è che questo processo di annientamento della libertà individuale sta avvenendo con il consenso dei cittadini. Anche qui si può discutere all’infinito sulle cause: auto-persuasione, persuasione razionale, persuasione occulta, persuasione fobica? Difficile dire. Di fatto, ed è ciò che qui interessa, il cittadino sembra accettare di buon grado controlli sempre più capillari, come si ripete, per il “suo bene”.

Ad esempio, in numerose città – non solo italiane – il consumo dei rifiuti è sottoposto a crescenti vincoli ( differenziazioni, veti, tetti, tributi). Ed è solo l’inizio. Sta diventano una specie di concessione governativa persino la libertà di ordinare una pizza al cartone.

E purtroppo non c’è peggiore dittatura di quella che l’uomo si dà da solo. Si chiama servitù volontaria.

Carlo Gambescia

(*) Qui, una rapida informazione per l’Italia: https://www.spstrend.it/gli-italiani-e-il-cambiamento-climatico/ . Altri dati più generali qui: https://www.undp.org/publications/peoples-climate-vote-2024 .